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9 maggio 1978: la notte buia dello stato italiano
“La notte buia dello Stato italiano”, questo il titolo della conversazione, ha visto un dialogo fra il pubblico e Carlo Ruta per gli aspetti storici, il regista Alfio Scuderi, che ha diretto lo spettacolo “9 maggio 1978”, e gli attori Paolo Briguglia ed Andrea Tidona, interpreti de “I cento passi” di Marco Tullio Giordana.
“Dopo il 9 maggio 1978 niente fu più come prima” spiega Alfio Scuderi, il quale pone l’accento sul dato emozionale, sulle testimonianze che mette sulla scena al fine di comprendere che aria si respirava in quel periodo anche alla luce dei due film “Buongiorno Notte” di Marco Bellocchio e “I cento passi” di Giordana.
“Attraverso questo spettacolo – continua – cerchiamo di riportare l’attenzione su quella giornata: le lettere di Moro, la telefonata dei brigatisti, la testimonianza di un membro delle Brigate Rosse. Da tali spunti nasce un percorso emotivo, non storico, che racchiude le figure di Moro e di Peppino Impastato comunicando emozioni sia con i testi che con la musica. In tal modo si percepisce, inoltre, come l’arte, il teatro, il cinema, possano contribuire a non far dimenticare, a mantenere viva la memoria”.
Sul ruolo della memoria affidato anche al cinema torna il giovanissimo Paolo Briguglia, il quale esordisce dicendo “Agli attori siciliani viene spesso chiesto di partecipare a film sulla mafia. D’istinto dico di no, preferisco le commedie, le trame divertenti. Ma, dopo il rifiuto iniziale si fa strada in me la presa di coscienza, la volontà di aggiungere tasselli al mosaico della memoria, per ricordare, per non far dimenticare”.
L’atmosfera legata alla percezione degli eventi da parte della gente comune è raccontata da Andrea Tidona, il quale ricorda come alla notizia del sequestro Moro fosse sceso in piazza Duomo a Milano per cercare il contatto con la gente aspettando l’evolversi degli eventi.
Le parole di Tidona esprimono una certa, costante, cruda amarezza: “Mi emoziona la responsabilità di interpretare Falcone, Chinnici, ma mi rattrista il fatto che, nonostante questi siano morti, nella gente non è cambiato niente. Personalmente realizzerei un film non su Riina o Provenzano, ma sulla mentalità mafiosa, sulla gente che mette l’etichetta eroe con riferimento a Falcone, a Borsellino, che, seppure persone eccezionali, sono state persone normali, persona capaci di compiere il proprio dovere”.
L’inquadramento storico è stato affrontato da Carlo Ruta, storico, scrittore, giornalista, il quale ha posto l’accento sulle differenze fra le due storie che tuttavia possono considerarsi parallele, accomunate dallo stato di necessità che ne determina l’epilogo: sia Aldo Moro che Peppino Impastato avevano comportamenti, atteggiamenti che contrastavano con il potere, quello politico imposto dal patto atlantico il primo, quello mafioso il secondo.
In un contesto statale caratterizzato da una divergenza verticale data dal governo ultratrentennale delle DC nel quale il PC, pur liberandosi dall’influenza sovietica, non dava piena fiducia agli Stati Uniti, Moro proponeva la politica delle divergenze parallele e l’apertura alla sinistra non solo socialista, ma anche comunista. Lo stesso giorno che Moro veniva ucciso in Italia si stava preparando un governo democristiano con l’appoggio esterno del PC. Ciò poteva essere condiviso da alcune fazioni del potere, ma non da altre.
“L’assassinio di Moro per mano delle Brigate Rosse – afferma Carlo Ruta – nasconde qualcosa di molto più complesso. Risulta impensabile che i Servizi Segreti sia italiani che americani non sapessero nulla. I quarantacinque giorni dal rapimento allo assassinio hanno dimostrato ciò perché le Brigate Rosse si sarebbero accontentate non del riconoscimento ufficiale chiesto all’inizio, ma solo della liberazione di due o tre persone, di un atto di generosità da arte dello Stato. Ciò si evince dalle testimonianze di alcuni brigatisti pentiti. La morte di Moro è quella di un soggetto che si è messo di traverso”.
Peppino Impastato aveva vissuto la mafia perché essa era nella sua famiglia, tuttavia era figlio del suo tempo giacché lottava contro l’autoritarismo. Egli compier una rottura totale: uccidere dentro di sé l’idea di mafia, compiendo in tal senso un “parricidio ideologico”.
Il contesto mafioso in quegli anni presentava una crisi di trasformazione che, dopo la guerra di mafia degli anni Ottanta avrebbe portato ad un cambiamento nelle coordinate dell’associazione.
Negli anni precedenti la mafia poteva contare sul grande contrabbando, sui proventi derivanti da questo e che dovevano essere reinvestiti nella cementificazione della Conca D’Oro, sul contatto con la politica per l’accaparramento degli appalti.
Già nel 1978 si intravedono i primi segni della guerra di mafia che si svolgerà negli anni Ottanta.
In tale contesto si assisteva ad una vicenda anomala: una famiglia mafiosa che prima si stacca da essa per poi rinnegarne per intero la matrice.
Il 19 marzo 1978 si riunisce la Cupola per discutere del rapimento Moro. Pippo Calò sostiene che bisogna far intervenire Buscetta, detenuto nel carcere di Torino (stesso istituto penitenziario in cui erano reclusi alcuni membri di spicco delle BR) per chiedere i membri da liberare.
In seguito la mafia non decide di interferire, come fece anche lo Stato.
Angela Allegria
23 marzo 2009
In www.modica.info