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A sedici anni dalla strage di via D'Amelio
Sembra quasi di vederlo ancora in vita in una domenica di luglio dopo una giornata trascorsa al mare, dirigersi dalla madre. Le macchine di scorta che si fermano, il giudice che scende dalla auto blindata, suona il citofono, l’ultima sigaretta, un sorriso e poi il nulla.
Agostino Catalano, Eddie Cousina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli attentissimi nel loro lavoro non hanno potuto far nulla stavolta, non hanno potuto salvare la vita al giudice Borsellino, né mettere in salvo la loro.
È questa l’ultima immagine che ricorda di aver visto Antonino Vullo, l’unico sopravvissuto alla strage di via D’Amelio, ed è questa l’immagine che hanno ricordato nella veglia di venerdì notte i siciliani, gli scout, i ragazzi di Addiopizzo, la gente comune che si è riunita intorno a Rita Borsellino sul luogo della strage.
Le celebrazioni della memoria sono cominciati in piena notte quest’anno, in un luogo in cui l’emozione è forte, il ricordo diviene straziante, un sito che è tornato alla normalità, ma non ha mai cancellato il dolore, la rabbia, l’ingiustizia che hanno macchiato il 19 luglio di sedici anni fa.
Paolo Borsellino aveva compreso dopo la morte di Falcone che la sua ora era vicina, vicinissima, era addirittura venuto a conoscenza che a Palermo era arrivato il tritolo per il suo attentato. Nonostante ciò non si tirò indietro, non smise di lavorare, andò avanti impegnandosi al massimo, forse ancora di più perché sapeva di avere poco tempo.
Il suo senso del dovere, la sua attività contro la mafia resero Borsellino un bersaglio da eliminare e in fretta, ad appena cinquantotto giorni dal suo collega e amico Giovanni Falcone. Sicuramente se avesse pensato ai fatti propri, fingendo di non vedere, voltandosi dall’altra parte innanzi alle ingiustizie il giudice Borsellino sarebbe ancora vivo e avrebbe potuto conoscere il nipotino che porta il suo nome. Ma Paolo Borsellino era fatto di un’altra pasta, non tollerava le ingiustizie, viveva con altissimo senso del dovere sia nel lavoro che nella vita privata. Sapeva e non voleva tirarsi indietro sin da quando aveva accettato di occuparsi di mafia.
“Sono diventato giudice – scrive Borsellino la mattina del 19 luglio 1992 in risposta ad una professoressa che aveva chiesto un incontro tra lui e i ragazzi della sua scuola – perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria, per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso. Fui fortunato e diventai magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975, per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’ufficio istruzione processi penali, ma alternai l’applicazione, anche se saltuaria, a una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle distanze legali, delle divisioni ereditarie. Il 4 maggio 1980 uccisero il capitano Emanuele Basile e il consigliere Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruttoria del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anch’egli dal civile, il mio amico d’infanzia Giovanni Falcone, e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso a occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente della criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e non, hanno oggi attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta.”
Anche i ragazzi della scorta erano persone normali, coltivavano i loro sogni come il matrimonio per Emanuela, vivevano a stretto contatto con il giudice che hanno protetto con la vita. Erano coscienti del pericolo del loro lavoro ma non per questo, nonostante la paura, hanno rinunciato.
Ora i loro nomi sono testimonianza della lotta contro Cosa nostra, costituiscono il prezzo della legalità per ribadire al mondo il proprio “no” alla mafia.
Angela Allegria
16 luglio 2008