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Antonino Saetta, un giudice dimenticato
Pagò con la vita l’aver compiuto con fermezza e coraggio il suo dovere di giudice”. Queste le parole che si leggono sulla lapide della tomba del giudice Antonino Saetta, sepolto nel cimitero di Canicattì.
Fermezza e coraggio, non esistono parole più adatte a definire colui che non ha mai fatto un passo indietro che lo inducesse a violare i propri doveri di magistrato e di uomo.
Entrato in magistratura a soli ventisei anni, aveva presieduto la Corte di Assise di Appello prima a Genova, poi a Caltanissetta e a Palermo. Aveva inoltre trattato il processo per la strage Chinnici.
Aveva presieduto il processo contro gli uccisori del capitano Emanuele Basile, il cui dispositivo fu letto poche settimane prima del suo assassinio. Nella sentenza Saetta aveva condannato all’ergastolo quali esecutori materiali dell’omicidio Basile, Vincenzo Puccio della famiglia di Ciaculli – Croce Verde Giardini, Armando Bonanno della famiglia di San Lorenzo Colli e Giuseppe Madonia, figlio del capofamiglia di Resuttana, Francesco, il quale fu indicato dai collaboratori di giustizia come membro della Commissione provinciale, la c.d. Cupola, presieduta da Michele Greco, il papa, e della quale facevano parte oltre a Madonia anche Salvatore Riina, Stefano Bontade e Antonino Salamone stabilmente sostituito da Provenzano.
Quale era stata la colpa del giudice Saetta? Quella di aver applicato la legge e di non “volersi piegare” per aggiustare un processo che, come riferiscono i collaboratori di Giustizia “stava a cuore a Totò Riina”.
Salvatore Cancemi ha riferito di avere sentito direttamente da Raffaele Ganci e da Salvatore Biondino che Riina aveva ordinato l’omicidio Saetta per dare soddisfazione alla famiglia Madonia e per l’esplicita ragione che il giudice non aveva voluto assolvere gli imputati. Egli inoltre spiega che per la gravità del fatto e per l’importanza del soggetto coinvolto nell’omicidio era stata chiamata in causa l’intera Cupola che si era pronunciata all’unanimità favorevole, e il consenso della commissione territorialmente competente.
Così il 25 settembre 1988 sull’autostrada Agrigento – Caltanissetta l’auto del giudice Saetta è stata affiancata dai killer e trivellata di colpi.
Per l’omicidio del giudice Saetta e di suo figlio Stefano, in macchina con lui, la Corte di Assise di Caltanissetta ha condannato Salvatore Riina e Francesco Madonia quali mandanti e Pietro Ribisi in concorso con Michele Montagna, Nicola Brancato e Giuseppe Di Caro in qualità di esecutori materiali. La sentenza è stata confermata nei successivi gradi di giudizio.
Perde così la vita un servitore dello Stato, un magistrato giudicante con un alto senso della Giustizia.
Chi lo ha conosciuto descrive il giudice Saetta come un uomo onesto, leale, intelligente e dedito al proprio lavoro, capace di dimostrare la sua natura cordiale e la sua sensibilità tanto in famiglia quanto nell’ambiente lavorativo e con gli amici.
Oggi, a distanza di venti anni dalla morte, un velo di silenzio circonda la figura del giudice Saetta e del figlio Stefano, un silenzio ingiusto, ingiustificato, un oblio che sicuramente non merita.
Abbiamo chiesto a Roberto Saetta, avvocato, figlio del giudice ucciso venti anni fa di parlare della figura dimenticata del padre.
D: Com’era caratterialmente Suo padre?
R: Mio padre era un magistrato riservato, schivo, non amava parlare molto del suo lavoro al di fuori di esso, come ad esempio in famiglia.
D: E in famiglia?
R: Era molto presente, seguiva molto la vita familiare. Era molto legato ad essa. Trascorreva il poco tempo libero con i propri congiunti. Era un punto di riferimento per noi figli e per mia madre.
D: E con i colleghi? In particolare cosa ci dice a proposito dell’amicizia con il giudice Rosario Livatino?
R: L’amicizia con il giudice Livatino è stata un po’ esagerata. Probabilmente mio padre e Livatino si conoscevano di vista perché erano entrambi di Canicattì, ma, mentre Livatino viveva lì, mio padre si era trasferito a Palermo dai tempi dell’Università. Si tornava a Canicattì per andare a trovare i parenti a volte, anche perché anche mia madre è di Canicattì.
Magari qualche notizia su Livatino si conosceva prima ancora che divenisse magistrato in quanto era un giovane molto studioso. Mio padre aveva questa nozione di Livatino, ma niente di più. Anche se non c’era frequentazione diretta, come hanno esagerato nel film “Il Giudice ragazzino”, senza dubbio vi era una forte stima reciproca fra i due.
D: A proposito del film di Alessandro di Robilant “Il Giudice Ragazzino”, lei ha affermato più volte che la visione della realtà resa dal regista travisa la stessa, soprattutto a proposito della figura di Suo fratello. Com’era in realtà Stefano?
R: Il film è fatto molto male anche dal punto di vista della cronologia. Mio fratello è stato rappresentato come un disabile mentre in realtà aveva avuto solo qualche disturbo psichico che gli aveva fatto abbandonare gli studi, ma si era trattata solo di una breve parentesi. Stefano era uno sportivo, una persona di spirito, allegra e perfettamente in salute.
D: Secondo lei suo fratello Stefano è stato ucciso perché aveva visto in faccia gli assassini di suo padre o per qualche altro motivo?
R: Mio fratello è morto nello stesso momento in cui è stato ucciso mio padre. Hanno sparato contemporaneamente ad entrambi. Se in macchina accanto a mio padre ci fossimo stati io o mia madre avrebbero ucciso noi. Quel giorno è capitato a Stefano.
D: Di cosa si stava occupando suo padre in quel periodo?
R: Aveva terminato da poco il processo per la morte del capitano Basile in cui aveva condannato Giuseppe Madonia, figlio del boss Francesco.
Correva voce, ma non vi era stata comunicazione ufficiale, che avrebbe potuto presiedere l’appello del maxiprocesso. C’era la prassi che il presidente della prima sezione della Corte d’Appello si occupasse anche dei processi grandi che aveva celebrato in primo grado.
Si era ancora a settembre e, se era davvero così, la comunicazione ufficiale sarebbe arrivata fra fine settembre ed inizio ottobre.
D: Quali obiettivi la mafia perseguiva uccidendo il giudice Saetta?
R: La mafia temeva un presidente come mio padre che non avrebbe fatto “sconti” di nessun genere agli imputati, un presidente che non si sarebbe fatto avvicinare da nessuno, come era già successo negli altri processi di cui si era occupato.
Altro obiettivo era quello di intimidire un po’ tutte le Corti che si avviavano a celebrare numerosi processi di mafia, effetto che poi, in certi casi, è stato raggiunto.
D: Possiamo affermare che il giudice Saetta sia stato ucciso due volte: una volta dai killer della mafia, la seconda volta dal silenzio che ne avvolge la figura. Secondo lei perché questo silenzio?
R: Quando mio padre fu ucciso la gravità di tale attentato fu acquisita dagli operatori: al funerale c’era l’intero Csm, c’era il Presidente della Repubblica e i rappresentanti della Istituzioni.
Poi, per una serie di fattori, i riflettori si spensero. Fra essi innanzitutto il fatto che l’inchiesta era stata archiviata per mancanza di collaboratori di giustizia che portassero, come avvenne dopo il 1992, a risconti precisi. L’indagine fu ripresa fra il 1995 e il 1996 già a quasi otto anni dell’attentato. Furono condannati Riina e Madonia, Ribisi come esecutore materiale.
Questa condanna ha costituito una bella pagina della magistratura.
Mio padre era un magistrato giudicante e difficilmente questi sono sotto i riflettori come i pubblici ministeri o i giudici istruttori i quali diventano già “divi” in vita.
Inoltre l’omicidio fu eseguito a Canicattì e non a Palermo, fu eseguito fuori, una scelta volta proprio a depistare, a spostare l’attenzione, a voler relegare l’uccisione di mio padre ad un fatto di provincia.
Per le altre vittime della mafia, come ad esempio Livatino o Impastato, ci sono state molte pubblicazioni, sono nate associazioni che ne tramandassero la memoria, nel caso di mio padre no, anche se l’omicidio di mio padre ha in sé due elementi non comuni: il fatto che egli fosse un magistrato giudicante, l’unico ucciso dalla mafia, e la circostanza che nell’attentato avesse perso la vita anche mio fratello.
Angela Allegria
25 settembre 2008