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Attività di intercettazione: aspetti tecnici e sociali
Intervista al dott. Michele Di Stefano, appartenente alla Polizia di Stato, esperto in tecniche investigative e forensi avanzate
Dott. Di Stefano, come si svolge l’attività di intercettazione?
Innanzi tutto va distinta l’attività di intercettazione a seconda dello scenario d’interesse, che può essere strategico o tattico.
Quello che riguarda più da vicino l’interesse dei giuristi in un contesto giudiziario è l’intercettazione c.d. tattica ma, per offrire al lettore un frammento del primo, e più complesso, scenario operativo si esporrà di seguito una brevissima sintesi d’insieme.
L’intercettazione strategica di comunicazioni riguarda il monitoraggio di intelligence militare, di sovente complementare ad articolate questioni geopolitiche, belliche, di sicurezza delle grandi potenze e di contrasto alle tante forme di terrorismo e di destabilizzazione, attività che, nella sua vastità di cointeressi, concerne l’analisi di imponenti sessioni di traffico.
Detto monitoraggio viene eseguito con evoluti – quanto costosi – dispositivi con l’impiego, tra l’altro, di sistemi di intercettazione satellitare e di filtri parametrici (c.d. sonde) che ispezionano il flusso di dati convergente sui nodi di macrocomunicazione (c.d. dorsali o backbone).
Il sistema più noto e “sconosciuto” è il progetto ECHELON, un sistema globale di intercettazione delle comunicazioni private e pubbliche, elaborato dagli Stati Uniti, assieme ai paesi del trattato UKUSA, che sarebbe in grado di monitorare ed intercettare il traffico dei satelliti commerciali in orbita.
AUSCANNZUKUS, anche noto con il termine “i cinque occhi”, è l’acronimo dei paesi che aderiscono al progetto (Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito, Stati Uniti).
In questo scenario altamente specializzato e “sofisticato”, intervengono molteplici protocolli avanzati che, utilizzando tecnologie TAL (Trattamento Automatico della Lingua), si interessano dello Speech Processing (SP) o elaborazione del parlato, e del Natural Language Processing (NLP) o elaborazione del testo, fino all’attività di analisi semantica approfondita, definita Intelligence Data Mining, finalizzata all’individuazione di informazioni nascoste nel flusso di dati ispezionato (si parlerà spesso in questa intervista di “flusso di dati”, in luogo del più comune lessico “flusso di conversazioni”, atteso che con l’avvento dei protocolli digitali di comunicazione, le stesse vengono veicolate sulla rete sempre più spesso sotto forma di “dati”, si voglia nel caso di web mail, di sistemi di chat, di protocolli Voice over Internet Protocol c.d. VoIP, e così via).
Da qui l’attività di monitoraggio si espande in modalità più complessa attraverso la decodifica di comunicazioni con sistemi più o meno articolati di criptatura (cioè di codifica con chiavi più o meno complesse di lettura), così come attraverso l’individuazione di elementi steganografati (cioè nascosti) che potrebbero, a mò di esempio, trovare allocazione invisibile nei frammenti di un’immagine (cioè dei singoli pixel) con la c.d. tecnica del “least significant bit”.
La tematica non consentirebbe di esaurire una sintesi in poche righe ma, trattandosi di protocolli d’intelligence che trovano poco spazio nell’ordinaria applicazione in un contesto di investigazione giudiziaria classica, la breve panoramica dovrebbe essere sufficiente per illustrare al lettore la complessità di un tema che, sempre più spesso, vede sui due piatti della bilancia esigenze di intelligence sovranazionale e diritti alla privacy del singolo (per chi volesse approfondire l’argomento, suggerisco la lettura di un mio articolo pubblicato dalla rivista Altalex il 20.11.2014, dal titolo “Intelligence & privacy nelle macroaree: un approccio COM/INT OS/INT”).
Nel trattare, adesso, l’intercettazione tattica, questa avviene in un contesto più contenuto ed attiene singole sessioni di traffico, con la possibilità di monitoraggi più ampi per macroaree – laddove l’esigenza d’indagine riguardi l’analisi più articolata di un flusso di dati – attraverso le dorsali ed i nodi di collegamento in Italia da altre nazioni ( si pensi alle intercettazioni “sul nodo nazionale”, alle intercettazioni per blocchi di telefonia pubblica nel caso di sequestro di persona o alle intercettazioni filtrate da/verso una determinata area geografica d’interesse investigativo).
Un ulteriore distinguo riguarda le intercettazioni di tipo giudiziario e quelle di carattere preventivo (ex art. 226 att. CPP ed art. 12 L. 133/2012), queste ultime effettuabili secondo analitiche previsioni dettate dal legislatore per la prevenzione di gravi reati di criminalità, eversione, terrorismo e per la sicurezza dello Stato, ed utilizzabili esclusivamente per esigenze investigative e di intelligence dagli organismi istituzionali preposti (tra cui AISI, AISE e DIA).
Ancora, l’attività di intercettazione “tattica” – sia essa giudiziaria che preventiva – può avvenire in ridotti contesti d’intelligence, con l’impiego di nuove tecnologie, ad esempio in grado di monitorare un’utenza satellitare che sta agganciando gestori di comunicazione commerciale (come i noti Thuraya, Iridium ed Inmarsat) o con sistemi, ancora, che utilizzano la tecnologia TEMPEST, con applicativi di tipo ottico, acustico o magnetico ( si tratta in estrema sintesi di evoluti sistemi in grado, ad esempio, di intercettare le modulazioni della luce legata alle spie di apparati elettronici, intercettare le onde elettromagnetiche emanate da un monitor sorgente o, ancora, analizzare i rumori come quelli prodotti dalla tastiera di un computer, così da effettuare un profile biometrico).
Nel trattare, infine, le intercettazioni più o meno convenzionali che avvengono per ragioni giudiziarie, in linea di massima l’attività viene oggi espletata – ormai quasi interamente in modalità standardizzata – attraverso la canalizzazione dei dati di interesse, a cura dei singoli gestori telefonici e di rete internet, su grossi server installati presso le Procure della Repubblica (in ossequio a quel comma 3 dell’art. 268 del codice di rito, che negli anni ’90 era stato spesso disatteso), che provvedono alla registrazione del flusso smistando poi, attraverso il c.d. processo di remotizzazione, le intercettazioni verso le singole postazioni della polizia giudiziaria investite dell’attività.
In pratica il singolo operatore, da un personal computer di ultima generazione, è in grado, ad esempio, di monitorare decine di utenze telefoniche, ascoltare una intercettazione ambientale e modulare a seconda delle necessità l’amplificazione dei singoli microfoni, monitorare gli spostamenti di un’autovettura o le celle di aggancio di un’utenza intercettata.
Ed, ancora, controllare da remoto una determinata area su ampi monitors touch-screen scegliendo la visione di più micro-telecamere motorizzate, effettuarne il brandeggio e lo zoom attraverso un joistick, filtrare i rumori presenti su un ‘autovettura ambientalizzata (ad esempio isolando il rumore generato da una ventola del climatizzatore, dall’impianto radio, dai tergicristalli, ecc.).
O acquisire tutti i dati presenti sul terminale (sia esso un pc, un tablet, uno smart phone) di un utente monitorato attraverso l’inoculazione di un troyan e gestire dalla stessa postazione “di ascolto” ogni dettaglio, come lo screen shot di una schermata, la duplicazione di una chiave di accesso, il contenuto di un cestino, la cronologia delle ricerche sul web, e tanto altro ancora.
I software dedicati consentono di effettuare dalla stessa postazione la consultazione di più folder contenenti dati d’indagine, effettuare una ricerca incrociata con svariate query d’interrogazione, dall’incrocio di utenze, ai nomi dei soggetti, alla chiave di una semplice stringa di testo.
Un livello più specializzato di operatori effettua, poi, l’attività di raccolta dei dati acquisiti nel corso delle intercettazioni, modulando una complicata attività di profiling dei soggetti, classificando le abitudini personali e professionali degli stessi, o una analisi relazionale dei contatti, delle aziende, delle reti sociali (il più noto ed evoluto sistema di analisi relazionale è Analist’s Notebook prodotto da IBM); ed ancora incrociando i dati di traffico telefonico inserendo in data base avanzati (tra i tanti TETRAS e SFERA) milioni di caratteri alfa numerici che verranno normalizzati e rappresentati fornendo in tempo reale spostamenti, agganci di celle, incroci telefonici ed una infinità di dati investigativi che, in modalità classica, sarebbero consultabili solo a seguito di elaborazioni complesse e dispendiose, sia in termini di tempo che di risorse umane.
Senza dilungarmi oltre ho ritenuto utile esporre, anche se in modo disordinato ed approssimativo, i tanti aspetti che attengono un’intercettazione, per far comprendere al lettore che il moderno scenario attorno cui ruota l’insidioso panorama delle intercettazioni di comunicazioni giudiziarie, implica una elevatissima professionalità di tutti gli addetti ai lavori condizionati da uno stato dell’arte “fluido” e sempre in corsa verso tecnologie ed applicativi innovativi di contrasto.
L’investigatore che procede all’attività di intercettazione deve percepire e poi interpretare ciò che vede e ascolta. Di cosa deve tenere conto per procedere a tale attività?
La presente domanda è strettamente correlata all’affermazione che ho appena fatto sulla elevata professionalità degli addetti ai lavori.
Innanzi tutto è noto che, secondo le previsioni del codice (art. 267 comma 4), le intercettazioni debbano essere effettuate personalmente dal pubblico ministero ovvero avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria, ma è altrettanto noto che la più grossa mole di intercettazioni sia effettuata anche dagli agenti di P.G., ciò in virtù della deroga (art. 13 L. 203/1991) che conferisce a costoro la possibilità di coadiuvare i primi nelle attività intercettive.
Va da sé che in moderno contesto altamente tecnologico, dove le intercettazioni di comunicazioni sono lo strumento operativo più utilizzato dalle forze di polizia, incidendo in gran misura sulle spese di Giustizia, l’operatore “addetto all’ascolto” debba essere altamente professionalizzato.
Ma se l’addetto ai lavori deve avere ottime conoscenze di tipo informatico, dei protocolli di comunicazione, di utilizzo e manutenzione delle nuove tecnologie elettroniche, dell’uso di moderni strumenti di analisi relazionale, deve parallelamente avere elevatissima competenza linguistica e, più in generale, di tutte quelle scienze che di dipartono dalla sociologia della comunicazione.
In un recente testo che ho curato per Altalex con l’amico Bruno Fiammella sulle “Intercettazioni: remotizzazione e diritto di difesa nell’attività investigativa”, paragono l’operatore addetto alla sala ascolto, “ovattato nelle sue cuffie audiofoniche”, ad un “palombaro nella sua campana d’ottone”.
Sarebbe interessante effettuare una ricerca scientifica tra gli operatori della polizia giudiziaria, così da apprendere dettagli ed emozioni di quell’eccezionale “professione”; l’investigatore in sala ascolto vive mesi interi “abitando l’alterità” del soggetto investigato, respirandone virtualmente ogni sfumatura, l’umore, i progetti, le passioni, le paure, il prossimo passo che potrebbe essere quello falso, ogni sott’inteso, le tante metafore, il suo gergo, i tanti alert che vorrebbero, da una parte, un intervento immediato per scongiurare la commissione di gravi delitti e, per altra, la necessità di rimanere sotto traccia ed evitare sconvenienti discoveries che manderebbero in fumo mesi e mesi di attività investigativa silente.
Ma il poliziotto, il carabiniere o il finanziere non sta solo con le cuffie dietro un monitor: al mattino deve probabilmente assolvere alla routine di una burocrazia spesso incompatibile con gli oneri a cui questi è istituzionalmente sottoposto, forse deve lavare o rifornire la vettura di servizio, metter sotto carica le torce “Jodo-Lux” o le le batterie dei visori notturni usati la notte prima in appostamento, individuare gli intestatari delle utenze contattate dal target, inserire sul sistema di intercettazione le tante anagrafiche d’interesse, interrogare gli archivi informatici per fare una profilazione dei soggetti monitorati, restituire in armeria giubbotti antiproiettile e mitra che dovrà riprendere alla sera quando uscirà di nuovo per sorvegliare il bersaglio salendo nel cassone di una “balena” dove l’aria manca ancor prima di salirci su (si tratta di piccoli furgoni di copertura, spesso con scarse blindature, dove tantissimi investigatori hanno passato ore ed ore rannicchiati, limitando all’inverosimile ogni banale esigenza fisiologica, senza poter utilizzare la climatizzazione per non fare rumore ed, ovviamente, senza mangiare e bere), passare sotto casa del “soggetto” e disattivare con un telecomando l’ambientale per evitare una bonifica, avvicinarsi ad un’auto e “travasare” al volo i dati memorizzati la notte prima, masterizzare le attività chiuse, trascrivere integralmente la conversazione che servirà entro l’indomani per la proroga di intercettazione in scadenza, trovare l’ennesima scusa a moglie e figli perché anche questa, di notte, non tornerà a casa in quanto l’antenna del rilancio di una radio frequenza andrà sostituita.
Ho voluto fare un flash su alcune delle tantissime incombenze a cui un operatore della polizia giudiziaria è preposto, in omaggio a quanti amano questo mestiere e continuano a farlo, seppur con i capelli bianchi, con lo zelo e la passione di un neòfita, dividendosi tra famiglia e colleghi, utilizzando l’arte dell’arrangiarsi, professionalizzandosi troppo spesso a spese proprie, continuando ad inghiottire rospi, raccogliere sputi ed incassare minacce, nel rispetto di quei valori scritti su una Carta sempre più violentata, e ciò, probabilmente, non perché super uomini coraggiosi, bensì, più semplicemente, “per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”(cit. C. A. Dalla Chiesa).
Chiedo scusa per questa digressione che ho fatto con il cuore in mano pensando ai tanti con cui ho condiviso questo principio ed agli amati amici, non più tra noi, che ho avuto il privilegio di conoscere tra un trancio di pizza fredda ed una notte all’addiaccio.
Tornando all’attività dell’operatore nella fase di ascolto e/o di visione di un contesto comunicativo, questi nell’analizzare ciò che viene detto/fatto nella situazione, deve parallelamente confrontarsi con un mondo che non gli appartiene e di cui conosce, ab externo, solo alcuni indefiniti contorni.
L’enfasi del contesto potrebbe indurlo a cogliere frammenti impercettibili di particolare significatività investigativa, come lo sfogliare di banconote, il taglio di sostanze stupefacenti, il rumore di uno sportello che si chiude, il rintocco delle campane, lo scarrellamento di un’arma, il belato di un ovino; ma, di converso, la continua attività di ascolto, spesso in situazione di distress o di semplice stanchezza fisica ( non è improbabile che operatori sottoposti a fenomeni stressori così intensi e continui possano facilmente incappare in rischiosi fenomeni di burn out), potrebbe indurre l’operatore a grossolani errori di valutazione ed inciampare in una pareidolia o in un “miraggio” acustico, cogliendo “fiaschi per fischi” o, richiamando un grossolano esempio di scuola recentemente verificatosi, “tritolo per cetrioli”; lascio al lettore immaginare quanto sia elevato il rischio laddove l’operatore sia inesperto o non conoscitore della comunità linguistica e socio-criminale d’interesse.
Per rispondere, ancora, alla domanda dell’intervistatrice, nel proseguire l’attività di ascolto, interpretazione e rappresentazione, l’operatore dovrà riportare una fedele trascrizione nella lingua vernacolare utilizzata dai parlatori e, successivamente, procedere ad una traduzione interpretativa in lingua italiana, fornendo una spiegazione chiara, all’attenzione dell’autorità giudiziaria, dei tanti aspetti gergali presenti nel lessico.
Ad esempio spiegando che “quatràru” significa in calabrese “ragazzo” dall’etimo latino quaternarius (bambino di quattro anni), mentre “picciotto” è un grado della ‘ndrangheta, o che, ancora, “smazzolatina” è una particolare modalità di distribuzione di 17 carte da gioco napoletane sul tavolo, attraverso cui uno “sgarrista” paleserà agli altri sodali il proprio status all’interno di una ‘ndrina.
Ma, nonostante queste accortezze, il frammento probatorio acquisito da un’intercettazione è soventemente incompleto per via dei tanti aspetti smarriti nel reperto fonico.
Spesse volte le trascrizioni, siano esse della polizia giudiziaria che dei periti, sono infatti carenti di tutti quegli aspetti paralinguistici che attengono la prosodia del parlato, come l’enfasi, le pause, il ritmo, l’intonazione e cosi via, assolutamente indispensabili per dare una connotazione interpretativa al lessico intercettato.
E’ evidente che la carenza di basi di linguistica – ancor prima che di linguistica giudiziaria – determinerebbero una ovvia limitazione della rappresentazione nel suo insieme; sarebbe auspicabile, nel complessivo scenario che concerne le intercettazioni giudiziarie, una attenta riflessione sul tema, con particolare riguardo all’improcrastinabile rivisitazione (o, meglio, costituzione) di un adeguato protocollo didattico formativo.
Che funzione viene ad assumere il linguaggio usato? Esiste, poi, in detto contesto una sorta di sociolinguistica giudiziaria?
E’ necessario, a questo punto, fare un breve distinguo tra le classiche conversazioni telefoniche e quelle, c.d. “faccia a faccia”, tipiche di un’intercettazione tra presenti o, in gergo tecnico, “ambientale”.
In linea generale, all’interno di una situazione comunicativa vanno considerate tutte quelle circostanze in cui viene prodotto un atto linguistico (come gli elementi linguistici, i fattori sociali, i ruoli dei parlatori e le conoscenze reciproche, le realtà esterne ed le interazioni comunicative).
Accanto alla “situazione” va poi considerata la “tassonomia dei componenti”, comprendente il contesto ambientale, la scena, l’identificazione del parlante, del mittente, dell’ascoltatore ascoltatore; ed ancora, destinatario, scopi risultati, scopi fini, forma del messaggio, contenuto del messaggio, chiave, canali di comunicazione, forme di parlate, norme di interazione, norme di interpretazione.
Nello scenario comunicativo assumono, ancora, essenziale rilievo lo “status”, cioè la posizione assunta all’interno di una struttura sociale; il “ruolo sociale”, cioè l’insieme di ciò che ci si aspetta da un certo status; ed il “ruolo comunicativo”, che attiene alla funzione assunta da uno dei partecipanti nel corso della interazione verbale.
Da ultimo, all’interno della situazione comunicativa, i messaggi vengono di sovente veicolati utilizzando stili linguistici altalenanti, scientificamente descrivibili attraverso la nota “Hyper &Hypo speech Theory”, rivolta ad analizzare i processi di adattabilità del parlatore dal punto di vista fonetico.
Avviene, cioè, che i partecipanti all’interazione, attraverso una sorta di “interruttore virtuale” – un meccanismo automatico di modificazione dello stile linguistico c.d. “code swiching” – modulino i propri item linguistici adattandoli alla specifica situazione comunicativa.
Ciò determina la configurazione di una situazione comunicativa spesso caratterizzata da schemi linguistici liberi, ancor prima che informali, fatta di frequenti salti linguisitici, cambi d’argomento e sott’intesi che non rimandano direttamente al tema di contesto.
Questa modalità di articolazione linguistica trova parallela assonanza in un’altra teoria descritta da Richard Hudson e definita “teoria della faccia”, laddove rileva, invece, commutazione l’espressione palesata attraverso “la faccia” del parlante, ciò secondo una modalità di “potere” (da cui consegue, ad esempio, un atteggiamento formale e distaccato) ed una di “solidarietà” (un approccio, cioè più informale, di tipo amicale o familiare).
Definiti i principali elementi costitutivi di una interazione comunicativa, è opportuno, adesso, distinguere il “registro”, cioè una varietà rispetto all’uso (es: le scrivo per informarla… poche righe per dirti …), dal “dialetto”, una varietà, questa, che si palesa rispetto all’utente, individuando la dimensione sociale in cui si colloca il parlante (es: ccà cumandamu nui [qui comandiamo noi] o, ancora, “immigrati fora dai ball” [immigrati fuori dai piedi]).
Orbene, accade spesso che le forme dialettali negli ambienti criminali, si sostituiscano all’italiano standard, in una miscellanea tra status e funzione all’interno dell’interazione comunicativa, cosicché la forma dialettale diventi autoreferenziale, sostituendosi in toto all’interpretazione semantica della lingua “standard”.
Ecco la risposta alla “funzione” del linguaggio in alcuni contesti criminali oggetto di elaborazione investigativa o di riesame forense; va da sé che la transcodifica asettica del parlato, trascritto esattamente nella dimensione vernacolare ricorrente, consentirà al giudice ed alle parti di avere a disposizione uno spaccato trasparente che potrà, a corredo, avere compendio con l’ausilio di traduzioni, intepretazioni, commenti gergali ecc.
Quanto evidenziato fino a questo momento spalanca le porte ad un contesto di analisi sociolinguistica che trova interesse in ogni frammento del lessico giudiziario assunto.
E’ necessario, a questo punto, descrivere la differenza esistente tra la conversazione in modalità classica attraverso le “vecchie” intercettazioni telefoniche e la novella introdotta dal nuovo codice, ormai dal 1990, con le captazioni di “comunicazioni tra presenti”.
Nelle conversazioni a distanza, lo si è anticipato, il reperto esitato è spesso carente degli aspetti paralinguistici o prosodici presenti e che non vengono cristallizzati dall’operatore per carenze formative, certamente non imputabili allo stesso.
Nella conversazione “faccia a faccia”, l’interazione è poi arricchita da altri fondamentali elementi comunicativi, questa volta di tipo extralinguistico: si pensi alla mimica (e da qui la “faccia”), alla postura, alla cinesica, o alla distanza esistente tra i soggetti interessati all’interazione comunicativa.
Tutti questi aspetti sono stati da lunga data focalizzati dai sociolinguisti, ed in particolare da Edward Hall in due celeberrimi testi: “la dimensione nascosta”, dedicato alla distanza sociale meglio conosciuta con il termine “prossemica”, ed “il linguaggio silenzioso” rivolto a tutte quelle esplosioni di movimenti che il nostro corpo non riesce a celare nel corso di una conversazione.
A titolo di esempio, provate ad osservare una persona che sta parlando al telefono, magari utilizzando le cuffie: noterete quanto sia ricca la sua gestualità naturale, come la sua mimica si moduli, nonostante “l’altro” si trovi chissà da quale altra parte del filo telefonico virtuale.
Tutti questi elementi, e tanti altri ancora, trovano compendio in una scienza che individua, all’interno della sociolinguistica diversi modelli “indicatori”, da quelli di “relazione” che comprendono la mimica, il contatto e la prossemica; a quelli di “struttura” di tipo convenzionale ed attraverso i turni; fino a quelli di “contenuto”, come la postura, i gesti ed i movimenti cinesici.
Ecco, già con questi piccoli aggiustamenti, anche un operatore non esperto sarebbe in grado di offrire, in fase trascrittiva, una serie di dettagli prima sconosciuti (o meglio intuibili ma non facilmente descrivibili) all’attenzione ed alle valutazioni delle parti interessate in un contesto giudiziario.
Questo ulteriore spaccato offre una diversa focale a quel banale paragone che prima avevo fatto sul “palombaro” nella sua campana: pensate, infatti, all’investigatore che sta ascoltando in cuffia una conversazione ambientale; ha, sì, un riscontro “acustico” della situazione comunicativa, ma è cieco, perché non ha cognizione di tutti quegli aspetti extralinguistici che, non semplicemente arricchiscono, ma spesse volte documentano in modo determinante ed inconfutabile il contenuto della comunicazione.
Se questa è una prima considerazione d’insieme su un approccio elementare alla sociolinguistica giudiziaria, va adesso approfondito il tema, che tanto più si professionalizza laddove l’operatore, l’investigatore, il consulente, l’interprete o il perito, abbiano maggiore competenza e conoscenza dei contesti socio criminali di talune comunità sociolinguistiche.
Nel Meridione, ma lo si è visto recentemente anche nelle comunità sinti e rom del centro e nord Italia, assumono elevata importanza taluni eventi di particolare significatività per l’intera comunità di riferimento.
Si pensi ad un matrimonio, un funerale, un battesimo o una cresima nella zona del “triangolo d’oro di Platì”, nei quartieri della periferia di Roma dove “gli zingari” la fanno da padroni, alla “Vucciria” a Palermo, a “Forcelle” o in uno dei tanti agglomerati delle martoriate province campane, a Nichelino dove le comunità calabresi sono ormai autoctone da decine di anni, o Buccinasco, Fagnano Olona, Toronto e tanti altri contesti “glocali” ove la criminalità organizzata si è ormai radicata da tempo.
Sarebbe impossibile descrivere in poche righe l’insieme dei frammenti probatori presenti nei frames di un filmato che ha “congelato” quei momenti di enfasi sociale, ma questo è il futuro delle moderne investigazioni che avvengono con l’ausilio di attività tecniche con supporti audio/video, ciò anche grazie alla strabordante disponibilità di materiale low cost che, con il senno del dopo, può essere agevolmente acquisito, sulla pubblica via, attraverso i server di un tabaccaio, dai ricchi post presenti su un profilo social, ecc.
Come vengono ricostruiti i c.d. messaggi in codice?
Nella prima parte dell’intervista ho fatto sintetico richiamo alla possibilità che taluni messaggi vengano veicolati in modo occulto attraverso vari sistemi steganografici: molti lettori avranno visto il film “nella morsa del ragno” dove alcuni ragazzini “chattavano” attraverso la steganalisi, occultando con il sistema del least significant bit messaggi presenti tra i pixel di alcune fotografie.
Nel caso concreto all’interno della foto era rilevabile la presenza di una leggera imperfezione, quasi invisibile ad occhio nudo (come un piccolo alone sui su alcuni pixel; da qui il termine L.S.B. “bit meno significativo”); all’interno di quell’area i ragazzi avevano nascosto sotto l’immagine dei caratteri che nel loro insieme avrebbero ricostruito il contenuto comunicativo.
Gli esempi sono tantissimi, dall’inchiostro simpatico che tanti di noi avranno provato ad utilizzare scrivendo con il succo di limone su un foglio bianco e poi facendo risaltare lo scritto con il calore, o con la tecnica delle cifre nulle, dei microdot, come quelli che oggi si utilizzano sulle autovetture per identificarne la provenienza in caso di furto, ecc.
Ma messaggi in codice sono anche i modelli interativi che hanno inventato i giovani con l’avvento della messaggistica telefonica, laddove per ragioni di sintesi, all’interno dei 160 caratteri di testo previsti, i giovani si sono sbizzarriti con una miriade di acronimi.
A questi è stata poi aggiunta una ulteriore messaggistica emozionale, in un primo momento descritta con la punteggiatura e le parentesi utilizzate per ricostruire “la faccia” assente nell’interazione, poi sostituite dalle moderne emoticon multimediali che esplodono sul nostro profilo messenger ad un singolo clic.
Messaggi in codice sono, da ultimo, quelli dei gerghi all’interno di più o meno ristretti contesti socio criminali, come un tatuaggio, un anello, il capo di biancheria esposto per indicare che la droga da spacciare è arrivata, la collocazione dei portatori di un feretro che, per un verso nasconde agli estranei il significato, per altro palesa ufficialmente a tutti gli intranei il passaggio di comando e le nuove graduazioni nella piramide del sodalizio.
Per quanto riguarda le intercettazioni in carcere: quale contesto e quale linguaggio cambia rispetto alle altre intercettazioni?
Non credo vi sia un grande distinguo tra i moduli comunicativi presenti all’interno delle strutture carcerarie ed il mondo esterno.
La fondamentale differenza sta nella maniacale sospettosità, dentro le mura di un carcere, di profferire parola con l’altro.
Nei carceri, però, è presente un mondo a sè stante rispetto a fuori, dove esistono gerarchie, consuetudini e modalità comunicative che, sì, riflettono le regole criminali, ma dove spazi ristretti ed interazione sociale enfatizzano oltre misura aspetti che, già nell’ordinarietà di un approccio sociolinguistico, sono particolarmente “forti”.
Comunque, in estrema sintesi, le intercettazioni in carcere – soprattutto quelle relative ai “colloqui con i familiari” – presentano significatività e pregnanza maggiore negli aspetti extralinguistici (cioè la mimica, la cinesica, la prossemica, il contatto) del contesto dialogico, attesa la criticità dei conversanti nel prestarsi a commenti verbali azzardati, nella presunzione di essere sistematicamente “ascoltati”.
Ma anche i contenuti video risultano spesso carenti o di difficile interpretazione, attesa la presenza nelle sale colloquio di sistemi passivi di videosorveglianza, palesi come quel big brother di George Orwell, così da rendere più dispendioso lo sforzo investigativo nella ricerca di utili messaggi nascosti nell’interazione.
Ricerca che, sempre più spesso, si addentra anche tra i tavolini del refettorio e nel contenuto delle c.d. “buche pasto”, cioè i pacchi contenenti beni di prima necessità ricevuti dai detenuti, che caratterizzano, con la corrispondenza epistolare, il più importante momento relazionale del mondo carcerario con l’esterno.
La difficoltà di intercettazione si è resa ancor più pressante a seguito della pronuncia della Suprema Corte (Cass. Sez. Unite, sentenza del 19 aprile 2011 depositata il 18 luglio 2012) in proposito all’impossibilità di considerare la lettura di corrispondenza epistolare dei detenuti quale “forma atipica di intercettazione” ex art. 266 e ss. c.p.p., classificando, per contro, la stessa quale diritto inviolabile sancito dalla nostra Carta.
A ben poco rimane la facoltà dei direttori dei penitenziari, secondo la legislazione speciale in materia, di ispezionare il contenuto della corrispondenza in uscita qualora il soggetto abbia nascosto “tra le righe” di uno scritto un messaggio criptato o steganografato, che potrà tranquillamente passare inosservato all’esterno.
Ultimo inciso riguarda il c.d. “baccaglio”, una colorita ed antica forma di rilancio delle comunicazioni in carcere che, attraverso il sistema del “passa parola”, è in grado di ridondare fino alla grata dell’ultimo finestrone che porta solitamente in strada ad orecchie attente.
Sarebbe interessante affrontare un approfondimento solo su questo tema che in un contesto sociologico – non soltanto giuridico – è pesantemente condizionato da uno smisurato sovraffollamento in uno scenario d’insieme che vede fare i conti con criteri afflittivi, di improbabile rieducazione e di scarso reinserimento sociale.
Angela Allegria
Dicembre 2015