6 Mar 2010

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Dietro le sbarre

Dietro le sbarre

Le condizioni dei detenuti e i problemi che quotidianamente affronta il personale carcerario a Ragusa e a Modica

Il recente dibattito sulle condizioni dei detenuti all’interno delle carceri italiane alla luce dei gravi fatti di cronaca accaduti in questi ultimi mesi non può non avviare una riflessione seria sulla situazione delle carceri alla luce della riforma dell’ordinamento penitenziario e delle parole dei protagonisti.

La problematica penitenziaria si colloca alla fine del processo di cognizione a patire dal quale si apre il procedimento destinato a dare attuazione alla pronunzia giudiziale.

Con la riforma del 1975 l’esecuzione della pena non diviene più esclusivo appannaggio dell’amministrazione penitenziaria, non è più una fase esclusivamente amministrativa nella quale il giudice di sorveglianza interveniva solo in caso di irregolarità, ma è affidata principalmente al giudice, organo che controlla la tutela dei diritti garantiti al condannato.

Il passaggio alla fase esecutiva, infatti, non segna una caduta delle garanzie riconosciute all’imputato ma più semplicemente un loro adattarsi al sopravvenuto status di condannato.

Ciò è sottolineato anche dall’utilizzo di una legge quale è la riforma del ’75 rispetto alle regolamentazioni precedenti affidate a regolamenti che, nella scala della durezza delle norme, sono utilizzati tutte le volte in cui si tratta di regolare non diritti soggettivi, ma semplici interessi legittimi. Prima della riforma i regolamenti, infatti, dovevano nel modo più chiaro e netto significare al condannato e al mondo esterno che il detenuto era segregato e doveva sentire la sua condizione attraverso situazioni concrete, innanzitutto attraverso la spersonalizzazione dell’individuo che perdeva la propria identità per divenire numero.

Accanto alla legge 345/1975 si colloca un regolamento esplicativo che completa e chiarisce anche sotto l’aspetto applicativo gli istituti previsti dalla legge.

In esso si coglie il significato di trattamento e la sua differenza con il trattamento rieducativo.

Nell’art. 1 comma 1 del decreto Presidente della Repubblica 230/2000 si legge: “Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali”.

Ciò implica l’attenzione per i rapporti affettivi, per l’istruzione ed il lavoro al fine di ridurre gli effetti negativi della riduzione della libertà con riferimento all’attività svolta.

Il termine “Offerta” evidenzia un salto qualitativo rispetto al passato nel quale il trattamento era imposizione, obbligazione, costrizione, semplice attuazione della pena afflittiva.

Nel secondo comma dello stesso articolo il legislatore definisce il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati che “è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”.

Rieducazione è un termine che si deduce dall’art. 27 comma 2 della Costituzione secondo il quale “Le  pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e il trattamento rieducativo si deve ispirare ai valori della Carta Costituzionale.

Modalità del trattamento è l’individualizzazione che deve rispondere dei particolari bisogni di ciascun soggetto accertati attraverso l’osservazione scientifica della personalità.

All’interno di tale panorama normativo c’è da chiedersi in che misura l’ordinamento penitenziario viene vissuto concretamente dai detenuti, dagli addetti ai lavori e per questo si propone una sorta di viaggio all’interno della casa circondariale di Ragusa e nel prossimo numero di Modica.

Angela Allegria
marzo 2010
In Prima Pagina

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