7 Giu 2008

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Il primo delitto eccellente

Il primo delitto eccellente

Per la prima volta l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia”, termine nuovo, associato al territorio siciliano e che vedeva nell’atteggiamento omertoso degli imputati, tenuto durante tutto il corso del processo, un carattere peculiare.

Il 1° febbraio 1893 su un treno proveniente da Messina, nel tratto fra Termini Imerese e Trabia, veniva ucciso con ventisette coltellate Emanuele Notarbartolo, politico siciliano, uomo eccellente per onestà e abilità amministrativa. Nonostante l’arma del delitto, usata per lo più nei delitti passionali, la “voce pubblica” ipotizzò un delitto di mafia. Il procuratore generale Sighele, inoltre, parlò di “alta mafia” nella relazione al guardasigilli del 26 febbraio 1894.

Per cercare di capire questo fatto di sangue che, per la prima volta, nel 1894 aveva visto come protagonista un uomo politico, è necessario chiedersi chi fosse Notarbartolo e quale fosse il suo ruolo nel contesto storico politico siciliano e italiano. Marchese di San Giovanni, discendente dei duchi di Villarosa, Emanuele Notarbartolo aderì da giovane alla causa garibaldina unendosi ai Mille e si distinse nelle battaglie di Milazzo e nell’occupazione di Messina. Nel periodo in cui fu sindaco di Palermo, dal 1873 al 1876, trasformò la città in un grande cantiere completando il mercato degli Aragonesi, la copertura del Politeama, diede il via all’ammodernamento della rete viaria, il collegamento della stazione centrale con il porto, posò la prima pietra per la realizzazione del teatro Massimo. Durante il suo mandato combatté il fenomeno della corruzione nelle dogane. Risanò le finanze comunali attirandosi per questo molti nemici i quali cercarono in ogni modo di isolarlo, mettendolo nella condizione di dover lasciare l’incarico.

Dal 1876 al 1890 fu presidente del Banco di Sicilia. La situazione del Banco di Sicilia all’arrivo di Notarbartolo era disastrosa: l’istituto si trovava quasi sull’orlo del fallimento derivante da speculazioni azzardate e un’amministrazione a dir poco avventurosa, la quale aveva permesso l’utilizzo agli speculatori di un capitale di otto milioni e ottocento mila lire e una riserva metallica di tredici milioni. Per risanare l’istituto Notarbartolo optò per un regime di austerità, invitando, da un lato, i direttori delle sedi a far rientrare i clienti più scoperti e consentire crediti solo ai titoli protetti da solide garanzie e, dall’altro, denunciando i nomi degli speculatori all’allora Ministro dell’agricoltura Micieli. La strategia ebbe in ben quattro anni ottimi risultati. Allo stesso tempo apportò modifiche allo statuto dell’istituto in modo da eliminare le componenti politiche in favore di quelle essenzialmente commerciali. Questo inasprì ancora di più gli animi dei suoi nemici al punto da ordinarne l’omicidio. Il delitto fu eseguito da due uomini, armati rispettivamente di pugnale triangolare e coltello a lama larga a doppio taglio con il manico d’osso.

Le prime indagini si concentrarono subito sul conduttore del treno, Giuseppe Carollo, il quale fu arrestato immediatamente dopo l’omicidio dalla polizia ferroviaria. Questi, incorso in varie contraddizioni fin dal primo interrogatorio, fu ritenuto il maggiore indiziato. Ma già agli inizi dell’estate dello stesso anno si assistette ad una clamorosa rivelazione ad opera del carabiniere Giuseppe Garrito, il quale dichiarò di essere venuto a conoscenza di un brindisi a favore della morte di Notarbartolo avvenuto nella tenuta La Montagnola, di proprietà dell’on. Palizzolo, brindisi tenuto da un gruppo di mafiosi. Un successivo rapporto dei carabinieri indicava come esecutore materiale Giuseppe Fontana, autore di almeno venti omicidi dei quali era stato assolto per insufficienza di prove. Questi, “intimo” di Palizzolo, era il capo della cosca di Villabate, che a quei tempi contava oltre 240 affiliati, dei quali almeno 24 avevano brindato a La Montagnola. Gli indizi raccolti non furono ritenuti sufficienti dal Tribunale di Palermo che emise una condanna di assoluzione nei confronti di tutti gli imputati, senza sentire neppure come teste il Palizzolo.

Due anni più tardi, nel 1895 un detenuto, Augusto Bartolani, dichiarò sotto giuramento che responsabili del delitto Notarbartolo erano il ferroviere Carollo e il killer Fontana. Tali dichiarazioni indussero la magistratura di Palermo a riaprire il caso, ma anche stavolta il Fontana fu assolto per insufficienza di prove, mentre Carollo e Baruffi, anch’egli ferroviere, furono rinviati a giudizio. Il figlio della vittima, Leopoldo, il quale si era sempre battuto per ottenere giustizia, riuscì a mobilitare l’opinione pubblica, in particolare Colajanni e De Felice Giuffrida, e, costituendosi parte civile, ottenne il rinvio del processo a Milano per legittima suspicione. Leopoldo Notarbartolo denunciò in tribunale la dilagante corruzione del Banco di Sicilia e i suoi sospetti su Raffaele Palizzolo. Con don Palizzolo, “u Cignu”, come fu detto, il marchese Notarbartolo si era più volte scontrato in passato, per aver cercato di ostacolarne le spregiudicate operazioni finanziarie di cui l’onorevole si era reso autore. Le carte processuali dimostrano in maniera copiosa che la mano omicida fu mafiosa e che il Palizzolo era un bravo “guanto giallo” sempre in ottimi e intimi rapporti con i mafiosi. L’istruttoria, infatti, evidenziò vecchi sodalizi fra il deputato parlamentare siciliano e la malavita palermitana e trapanese, a favore della quale egli si era prodigato più volte ottenendo scarcerazioni e riduzioni delle pene, al fine di conquistarne il sostegno elettorale. Il processo di Milano, inoltre, evidenziò un sistema di corruzione generale che coinvolgeva le istituzioni dello Stato. Divennero in tal senso imputati la mafia e le istituzioni statali presenti in Sicilia. Per la prima volta l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia”, termine nuovo, associato al territorio siciliano e che vedeva nell’atteggiamento omertoso degli imputati, tenuto durante tutto il corso del processo, un carattere peculiare. Il processo di Milano si concluse con la condanna solo degli autori materiali del delitto.

Il vero processo a carico di Palizzolo si svolse dinnanzi alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nazionale con 230 voti favorevoli e soltanto 18 contrari. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”, il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese Palizzolo fu condannato a trenta anni di reclusione insieme a Fontana, mentre Garufi e gli altri imputati furono assolti.

Il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia, che si era instaurato durante i processi portò all’esplosione di vive reazioni di protesta da parte dei siciliani, ma anche di autorevoli intellettuali fra cui Pitrè e De Roberto. Essi, infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola da tali infamie. Quale potè essere il motivo di una simile scelta? Essi, in realtà, volevano riscattare la Sicilia da quell’onta mafiosa che già da processo di Milano era stata attribuita a quel territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattuazione della sentenza bolognese, la quale venne portata in Cassazione e poi definitivamente annullata con il rinvio alla Corte di Assise di Firenze.

Ritorna a Palermo su una nave, a mo quasi di trionfo Raffaele Palizzolo, onorevole e consigliere d’amministrazione del Banco di Sicilia, il quale, dopo esserci arricchito con la liquidità dei risparmiatori, esser stato condannato per l’omicidio di colui che era stato preposto all’istituto di credito per risanarne la situazione, fu assolto e acclamato dal popolo siciliano che preferì lasciare un delitto insoluto piuttosto che vedersi attribuito l’appellativo di “mafioso”.

Angela Allegria

16 maggio 2007

In www.girodivite.it

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