2 Feb 2015

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La determinazione del Quantum nella equa riparazione per la durata non ragionevole del processo

La determinazione del Quantum nella equa riparazione per la durata non ragionevole del processo

La legge 24 marzo 2001 n. 89, così come modificata dal d. l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella legge7 agosto 2012, n. 134 e dal d. l. 8 aprile 2013, n 35, convertito con modificazioni nella legge 6 giugno 2013, n. 64, ha stabilito il diritto all’equa riparazione per la durata non ragionevole del processo.

L’art. 2 della legge Pinto, rubricato “Diritto all’equa riparazione”, stabilisce che chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione.

Con tale provvedimento nell’intenzione del legislatore si palesa la volontà di disciplinare in maniera compiuta, attraverso una serie articolata di regole, un sistema di tutela giurisdizionale volto a garantire ai cittadini la riparazione del pregiudizio subito a causa dell’eccessivo ed ingiustificato protrarsi dei procedimenti che li coinvolgono.[1]

Ma sensibili novità riguardano anche la disciplina sostanziale del diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, ispirate a loro volta all’obiettivo, da un lato, di fare chiarezza su alcuni degli aspetti maggiormente problematici sul piano interpretativo e applicativo, sempre in ottica deflattiva e semplificatrice, e, dall’altro, di ottenere un contenimento degli esborsi annualmente sopportati dall’erario, attraverso un irrigidimento dei relativi presupposti e della misura standard dell’indennizzo.[2]

La legge Pinto stabilisce parametri precisi per la formulazione della valutazione circa la durata del processo e conseguentemente circa la sussistenza del diritto alla riparazione del pregiudizio subito.

Seguendo le linee dettate dalla Corte di Strasburgo, prima la giurisprudenza tramite le pronunce della Cassazione e adesso il legislatore stesso, hanno determinato il termine di ragionevole durata del processo.

Si specifica al comma 2 bis che il termine ragionevole di cui al comma 1 dell’art. 2 si considera rispettato se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità.

Con riferimento al procedimento di esecuzione forzata il termine ragionevole è rispettato se lo stesso si è concluso in tre anni, mentre per la procedura concorsuale se la stessa si è conclusa in sei anni.

Il comma 2 bis specifica che ai fini del computo della durata il processo si considera iniziato con il deposito dell’atto introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell’atto di citazione. Per quanto riguarda il processo penale, lo stesso si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari (415 bis c.p.p.)

In ogni caso, sottolinea il legislatore nel comma 2 ter, si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.

Il legislatore, rifacendosi ai parametri europei, tende a delimitare in modo preciso i limiti massimi dell’estensione temporale del procedimento giudiziario, fissando dei paletti oltre i quali il processo può certamente continuare, ma la cui durata diviene sproporzionata o quanto meno dilatoria. In realtà non si tratta di un risarcimento che avviene in maniera automatica, ma che può essere richiesto dalle parti se si verificano i presupposti.

In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio, a meno che il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento del diritto alla riparazione, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, restando irrilevante l’asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria.[3]

L’art. 2 si riferisce ad un danno patrimoniale o non patrimoniale, con evidente richiamo delle nozioni e dei concetti afferenti l’ambito della responsabilità civile propriamente intesa.

Più semplice risulta l’inquadramento del danno patrimoniale che si afferma consistere in un pregiudizio, appunto di natura patrimoniale, discendente quale conseguenza immediata e diretta dell’eccessiva durata del giudizio. Al fine di evitare che la legge Pinto divenga improprio strumento per una sorta di rivincita fittizia rispetto ad una tardiva sconfitta in giudizio, sia la Cassazione che la Corte di Strasburgo applicano e richiedono un particolare rigore valutativo della fattispecie: il ricorrente deve provare l’esistenza del pregiudizio e l’entità del suo ammontare in ogni sua voce in modo puntuale; occorrerà, dunque, che il ricorrente provi di aver subito un impoverimento economico in esito alla eccessiva durata del giudizio: esso potrà variamente atteggiarsi e dunque consistere tanto nell’accrescimento delle difficoltà di soddisfacimento di un credito, quanto nelle maggiori spese processuali sopportate dalla parte o i un danno professionale; oppure rientrare in altre ipotesi, quali ad esempio la perdita di chances, purché venga rigorosamente dimostrato che l’impedimento di un evento economicamente e patrimonialmente virtuoso sia ricollegabile, come conseguenza diretta, all’irragionevole prolungarsi del procedimento censurato. Quanto poi alla concreta liquidazione del danno, essa non potrà che seguire i criteri caratteristici della qualificazione del risarcimento del danno da illecito nel quadro del sistema della responsabilità civile: perdita subita e mancato guadagno, nonché eventuale liquidazione equitativa per il caso in cui non sia possibile determinare il preciso ammontare del pregiudizio patrimoniale.[4]

Del pregiudizio non patrimoniale trattava esplicitamente l’art. 2 della legge Pinto. In esito alla riforma, importanti elementi sono stati “trasferiti” nell’art. 2-bis, come richiamo all’art. 2056 c.c.

Ristoro del danno non patrimoniale significa, per la legge Pinto, attribuzione dello Schmerzensgeld a ristoro del pati dovuto tanto al protrarsi eccessivo di una causa in cui il ricorrente è coinvolto, quanto, come parte della dottrina ha rilevato, al parallelo persistere dell’incertezza circa la sorte del bene giuridico oggetto della lite, aspetti cui tanto questa dottrina, quanto altre, legano l’osservazione secondo cui tale sofferenza diviene giuridicamente rilevante sotto il profilo della sua riparazione a prescindere dall’esito del processo incriminato: potrà agire, invero, per chiedere il ristoro, chi sia risultato in esso vincitore come pure chi sia stato soccombente. Il pregiudizio morale, l’ansia e il turbamento che la legge considera indennizzabili dipendono, infatti, dal solo protrarsi eccessivo del pregiudizio.[5]

Quanto alle caratteristiche strutturali del danno non patrimoniale nel caso di specie ci si chiede se esso presenti una struttura analoga o quantomeno commensurabile a quella del danno non patrimoniale delineato nell’ambito dell’illecito civile.

La nozione di danno morale rilevante ai fini dell’art. 2059 c.c. sembra rimanga la medesima per il campo dell’illecito civile e per il campo del ristoro ex lege Pinto, sena la necessità che il ricorrente specifichi quale tipo di pregiudizio ha subito, se danno morale propriamente inteso, pregiudizio alla salute assimilabile al danno biologico o alla vita di relazione assimilabile al danno esistenziale, risultando bastevole una indicazione generica e onnicomprensiva; il tutto reso meno complesso dal sistema probatorio presuntivo e dai criteri di liquidazione speciali indicati in sede europea.[6]

Anche la giurisprudenza muta il proprio orientamento passato, sostenendo che, ai fini dell’equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo, di cui all’art. 2 l. n. 89 del 2001, deve essere riconosciuto sussistente un danno non patrimoniale, se nel caso concreto non ricorrano particolari circostanze che positivamente lo escludano.[7]

Ciò evidenzia l’idea, corroborata dalla giurisprudenza, secondo la quale l’eccessiva durata del processo comporterebbe l’esistenza di un pregiudizio non patrimoniale in re ipsa, o meglio, che tale pregiudizio sarebbe da riconoscersi in via pressoché automatica una volta accertata la violazione dell’art. 6 della CEDU.[8]

Il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto.[9]

A fronte dello specifico rinvio all’art. 6 della Convenzione, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, e, dunque, debba conformarsi, per quanto possibile, alle liquidazioni fatte in casi similari dal Giudice Europeo, sia pure in senso sostanziale e non meramente formalistico, con la facoltà di apportare le deroghe che siano suggerite dalla singola vicenda, purché, appunto, in misura ragionevole. In particolare, la Corte di Strasburgo, con le decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (in particolare per i casi Riccardi Pizzati e Zullo), ha individuato nell’importo compreso fra 1.000 euro e 1.500 euro per anno la base di partenza per la quantificazione dell’indennizzo, ferma restando la possibilità di discostarsi da tali limiti, minimo e massimo, in relazione alle particolarità della fattispecie.[10]

Secondo consolidata giurisprudenza, nella quantificazione dell’equa riparazione in misura inferiore allo standard minimo annuo fissato dalla Corte di Strasburgo in 1.000 euro non può aversi riguardo generico alla modestia della pretesa azionata, senza prendere in considerazione, comparativamente, le condizioni economiche dell’interessata e raffrontare la natura e l’entità della pretesa patrimoniale (c.d. posta in gioco) e la condizione socio-economica del richiedente, al fine di accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di questo.[11]

Il nuovo art. 2 bis della Legge Pinto, stabilisce al primo comma che l’indennizzo non possa essere determinato in misura inferiore a 500 euro, né superiore a 1.500 euro, per ogni anno o frazione di anno superiore a sei mesi eccedente il termine ragionevole di durata del processo.

La norma ha portata innovativa con riferimento all’importo minimo dell’indennizzo, così fissato in misura inferiore a quella di 750 euro finora considerato dalla Cassazione, con indirizzo consolidato, limite invalicabile e peraltro calido solo per i primi tre anni di durata irragionevole, per quelli ulteriori ritenendosi, invece, non superabile (quale che fosse la natura e il valore del giudizio) il limite di 1.000 euro in forza di una differenziazione che poggia sulla presunzione di un progressivo aggravamento del danno da ritardo.

L’indennizzo è determinato, ai sensi del secondo comma del citato articolo, tenendo conto di diversi parametri, quali: l’esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1 dell’art. 2, il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

In ogni caso la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.

Da non trascurare, inoltre, la precisazione secondo cui l’importo unitario da determinarsi entro il range predetto vada rapportato, sempre ovviamente nell’ambito della sola durata del processo eccedente il termine di durata ragionevole, a ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi.[12]

Angela Allegria

Gennaio 2015

In Nuove Frontiere del Diritto

Bibliografia

  • AZZALINI, L’eccessiva durata del processo e il risarcimento del danno: la legge Pinto tra stalli applicativi e interventi riformatori, in Responsabilità civile e Previdenza, 2012, f. 5, pp. 1702 e ss.
  • GIROLAMI, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, in AA. VV., Responsabilità civile. Danno non patrimoniale, diretto da Patti, a cura di Delle Monache, Milano, 2010, pp. 533 e ss.
  • IANNELLO, Le modifiche alla legge Pinto tra esigenze di deflazione del contenzioso e contenimento della spesa pubblica e giurisprudenza di Strasburgo, in Giur. di Merito, 2013, f. 1, pp. 13 e ss.

 

  • Cass. Civ., I sez, 10.1.2005, n. 297, in Giustizia Civile, 2005, 5, I,1204.
  • Cass. Civ., 12.1.2009, n. 402, in Altalex.
  • Cass. Civ., I sez., ordinanza 26.2.2010, n. 4798, in Altalex.
  • Cass. Civ., VI sez., 9.1.2012, n. 35, in Giustizia Civile, 2012, 2, I, 316.

[1] AZZALINI, L’eccessiva durata del processo e il risarcimento del danno: la legge Pinto tra stalli applicativi e interventi riformatori, in Responsabilità civile e Previdenza, 2012, f. 5, p. 1702B.

[2] IANNELLO, Le modifiche alla legge Pinto tra esigenze di deflazione del contenzioso e contenimento della spesa pubblica e giurisprudenza di Strasburgo, in Giur. di Merito, 2013, f. 1, p. 13 B.

[3] Cass. Civ., VI sez., 9.1.2012, n. 35, in Giustizia Civile, 2012, 2, I, 316.

[4] AZZALINI, L’eccessiva durata, cit., p. 1702.

[5] GIROLAMI, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, in AA. VV., Responsabilità civile. Danno non patrimoniale, diretto da Patti, a cura di Delle Monache, Milano, 2010, p. 533.

[6] AZZALINI, L’eccessiva durata, cit., p. 1706.

[7] Cass. Civ., I sez, 10.1.2005, n. 297, in Giustizia Civile, 2005, 5, I,1204.

[8] AZZALINI, L’eccessiva durata, cit., p. 1706.

[9] Cass. Civ., 12.1.2009, n. 402, in Altalex.

[10] Cass. Civ., I sez., ordinanza 26.2.2010, n. 4798, in Altalex.

[11] Cass. Civ., 12.1.2009, n. 402, cit.

[12] IANNELLO, Le modifiche, cit., p. 13 B.

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