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La presenza femminile nel mercato del lavoro. Ne parliamo con il prof. Carlo Dell’Aringa, docente di Economia Politica presso l’Universita’ Cattolica di Milano
La presenza femminile nel mercato di lavoro pone l’accento su una questione abbastanza delicata: il ruolo di essa all’interno di tale mercato, le sue reali possibilità di accedervi, di restarvi, di non fuoriuscirne subito per cause non dipendenti dalla propria volontà.
Secondo la visione tradizionale la donna è prima di tutto moglie e madre. Tale visione è ormai superata: la donna può ormai puntare sulla carriera, scegliere di intraprendere qualunque professione, esercitare arti e dirigere imprese. Eppure esistono ancora campi prettamente maschili, settori, cioè, in cui predomina la presenza dell’uomo, attività in cui le donne hanno possibilità ristrette di accedere.
Al fine di avere un quadro realistico della presenza femminile nel mercato del lavoro abbiamo formulato qualche domanda al Prof. Carlo Dell’Aringa, docente di Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano.
Il mondo finanziario, il mercato borsistico, l’imprenditoria: tutti settori con quasi totale presenza maschile. Perchè, secondo Lei, la presenza femminile in questi settori è pressocchè nulla?
Questione di tempo e le donne arriveranno anche ai vertici del mondo finanziario ed economico. Non è vero , come talvolta si crede, che le donne abbiano una particolare avversione contro il mondo del business e le vicende economico-finanziarie. Molti anni fa quando ho incominciato ad insegnare economia , le ragazze, a lezione, erano una su dieci. Oggi sono più o meno la metà. Il numero di ragazze che fanno il dottorato in economia e che intraprendono la carriera accademica, aumenta di anno in anno e molte di loro hanno già raggiunto i vertici della carriera. Nei Paesi anglosassoni vi sono donne ai vertici di aziende e di istituzioni che operano nel mondo della finanza e delle borse. Noi siamo indietro, ma, come ho detto, è solo questione di tempo. Il problema è, comunque, più generale e riguarda la possibilità per le ragazze di conciliare la vita di famiglia con gli impegni gravosi di un lavoro che richiede spesso molto tempo ( anche la di fuori del normale orario di lavoro) e talvolta anche l’esercizio di pesanti responsabilità. I lavori di eccellenza sono spesso assorbenti e non lasciano molto spazio ad altri pensieri e preoccupazioni. Questo è il motivo per cui spesso ragazze “di eccellenza” si “autoescludono”, per ragioni di famiglia, dai lavori di grande impegno e responsabilità, che sarebbero benissimo in grado di svolgere. Questo fenomeno rappresenta una perdita secca per un Paese che voglia sfruttare appieno i propri “talenti”, al fine di aumentare il proprio potenziale di crescita. Io penso che una migliore divisione del lavoro e una minore segmentazione dei ruoli all’interno della famiglia, siano alla fine i fattori più importanti da realizzare. Essi devono mettere radici più profonde nella nostra cultura. Lo stanno già facendo; forse il processo va facilitato e accelerato.
Una donna su Dieci è disoccupata: da cosa dipende ciò e in che modo si può evitarlo?
In tutto il mondo il tasso di disoccupazione femminile è più alto di quello maschile. Allo stesso modo è più elevato il tasso di disoccupazione dei giovani oppure quello degli immigrati. Si tratta delle cosiddette fasce deboli del nostro mercato del lavoro. Le ragioni della “debolezza” sono comunque diverse. Per le donne la “debolezza” dipende da fattori che, come si dice in termini tecnici, dipendono sia da fattori di offerta che di domanda. I fattori di offerta dipendono in ultima analisi dal fatto che le donne lavorano “a casa” più degli uomini. Ciò le rende meno disponibili ad un “altro” lavoro , che sia remunerato e fuori di casa. Questo è particolarmente vero quando i lavori domestici includono anche la cura di bambini piccoli. In questi casi le donne decidono o di ritirarsi dal mercato del lavoro, almeno per un certo periodo di tempo, oppure di stare sul mercato del lavoro, magari cercando un posto che permetta di conciliare il lavoro fuori casa con il lavoro domestico. Per questo motivo le donne sono più “esigenti” nella ricerca del lavoro, cercano più a lungo e rimangono più tempo disoccupate. Vi è poi da dire che quando una donna vuole rientrare nel mercato del lavoro, avendo perso il posto precedente, si mette a cercarne un altro e attraversa di conseguenza un nuovo periodo di disoccupazione. Periodi di disoccupazione più lunghi e un numero di episodi di disoccupazione più elevato, fanno si che nei registri della disoccupazione, si trovino, in ogni dato momento, più donne che uomini. Ma la disoccupazione delle donne non dipende solo da fattori “soggettivi”, cioè dal fatto di dover far fronte ad altri impegni, ma anche da condizioni “oggettive” e cioè dal fatto che le effettive opportunità di impiego sono poche e in genere minori di quelle esistenti per gli uomini. Si dice in questo caso che esistono anche problemi sul fronte della domanda di lavoro. E questo argomento ci porta alla domanda seguente.
In termini economici quanto è più conveniente per un imprenditore assumere un uomo piuttosto che una donna?
Una delle ragioni, forse la principale, per cui le donne hanno difficoltà a trovare un impiego, è perché sono discriminate. Una prima forma di discriminazione , la più grave, risiede nel fatto che esiste un atteggiamento contrario alle donne. Può essere il datore di lavoro che non “vuole avere a che fare” con dipendenti di genere femminile. Possono essere gli stessi lavoratori ( o parte di essi) che non vogliono lavorare con colleghi “donna”. Si tratta di pregiudizi, di atteggiamenti purtroppo ancora presenti nella cultura nel nostro tempo, che vanno combattuti. Però quando sono diffusi, non è facile estirparli . Nei Paesi anglosassoni la discriminazione di questo tipo è aspramente combattuta. La repressione è intensa e le penalità sono molto forti. Noi , in Italia, non ci siamo ancora attrezzati abbastanza per reprimere questa forma odiosa di discriminazione. Vi è poi una forma di discriminazione meno “odiosa”, ma altrettanto se non forse più importante e grave. Essa dipende da una convinzione molto diffusa e cioè che la produttività delle donne viene ritenuta più bassa di quella degli uomini . Questa convinzione è basata sulla semplice constatazione che le donne sono generalmente prese da impegni domestici e quindi non hanno il tempo e la “testa” per fare bene un lavoro “fuori casa”. Se questo può essere vero per alcune donne, non lo è certamente per tutte. Ma per certi datori di lavoro è preferibile fare di “tutta l’erba un fascio” e quindi evitare di assumere donne per non correre rischi, senza cercare di andare a distinguere caso per caso e vedere concretamente, sul posto di lavoro, se una donna è produttiva o meno , rispetto ad un uomo. Se tutti i datori facessero lo stesso, non si assumerebbero più donne e tutte le donne, brave e non, sarebbero terribilmente discriminate. E’ vero che se si guarda ad alcun i indicatori medi , si trova che il timore di assumere donne è un po’ fondato. Ad esempio i tassi di assenteismo sono più elevati per le donne che per gli uomini. Ed è naturale che sia così, i motivi sono ben noti e li abbiamo elencati sopra. Ma questi dati statistici presentano non solo una media , ma anche una grande variabilità. Vi sono moltissime donne che sono più produttive e più brave degli uomini e sarebbe del tutto inefficiente (e non solo ingiusto) per un Paese non dare ad esse l’opportunità di far valere le proprie doti.
Secondo lei, quali possono essere i rimedi da adottare per evitare la precoce fuoriuscita delle donne dal mercato del lavoro?
Il ritiro delle donne dal mercato dal lavoro è forse dovuto più a fattori dal alto dell’offerta che dal lato della domanda. In attesa che cambino (e più velocemente di quanto non succeda ora) i modelli culturali che presiedono alla divisione del lavoro domestico, esistono misure che possono essere prese per permettere alle donne di meglio conciliare il lavoro domestico con quello familiare. Ad esempio l’introduzione dei congedi di maternità anche in favore delle donne impegnate in rapporti di collaborazione a progetto, va esattamente in questa direzione. Il pericolo che un lavoro temporaneo e flessibile ( di per se utile per dare una occasione di lavoro che altrimenti non si presenterebbe) assuma i caratteri della precarietà, può essere scongiurato anche mettendo in atto gli opportuni interventi sul versante del “welfare”. I congedi sono uno di questi, gli ammortizzatori sociali sono un altro, i contributi figurativi per la pensione un altro ancora , e ancora i mutui agevolati per la casa, e altri ancora. Forse la misura più efficace per “trattenere” le giovani donne con bambini piccoli nel mercato del lavoro, riguarda la fornitura di servizi all’infanzia, fra cui gli asili nido e soprattutto gli asili nido vicino ai posti di lavoro. Sempre di più , poi, assume rilievo la cura degli anziani. Molte donne si ritirano dal mercato del lavoro anche per questo motivo. I servizi pubblici e collettivi per la cura degli anziani assumono una importanza crescente, considerato il veloce invecchiamento della nostra popolazione. L’abolizione di qualsiasi quota per l’immigrazione di “badanti” è un intervento auspicare, perché va nella stessa direzione. Servirebbe, se non altro per ridurre il tasso di illegalità , che è altissimo per questo tipo di manodopera immigrata.
In che modo lo Stato può attenuare la differenza che ancora oggi, nel 2007, esiste dal punto di vista lavorativo fra uomo e donna?
Coi servizi sociali, di cui al punto precedente. Combattendo in modo più efficace la discriminazione. E infine con una struttura del sistema fiscale che da un lato preveda agevolazioni per il “part time” e dall’altro sia “amichevole” nei confronti della famiglia , con un sistema di esenzioni e aliquote di imposte che, al margine, incentivino e non penalizzino il lavoro del coniuge.
Angela Allegria
8 marzo 2007