7 Ott 2013

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La prova del DNA all’interno dell’Ordinamento giuridico italiano

La prova del DNA all’interno dell’Ordinamento giuridico italiano

Negli ultimi tempi si è verificato un decisivo spostamento del baricentro del sistema probatorio penale a cagione del progredire della prova tecnico-scientifica e della proporzionale diminuzione di rilevanza della prova dichiarativa.
Per la possibilità di analisi su tracce anche minime, le analisi di genetica forense hanno conquistato in brevissimo tempo, dopo le prime applicazioni ed un breve periodo di sperimentazione, il favore degli scienziati e sono ormai accettate nelle aule di giustizia di tutto il mondo.
L’utilità della scienza all’interno del processo non è legata solo alla capacità di mettere a disposizione di investigatori e giudici nuovi e sempre più sensibili strumenti per la ricostruzione dei fatti, essa è anche in grado di affinare vecchi strumenti, definendone limiti e potenzialità in modo scientifico.
Ian Evett parla di una vera rivoluzione tecnologica, grazie alla quale l’esperto forense abbandona le vesti di “artigiano” con capacità basate in via esclusiva sull’esperienza, sull’intuito e sulla credibilità acquisita negli anni e trasborda a quelle di moderno scienziato forense, con opinioni basate sulla comprensione e conoscenza dei dati, supportati dalla misura dell’incertezza delle prove con l’impiego delle probabilità.
Nel vertiginoso intreccio dei rapporti tra scienza e diritto, teorie generali della conoscenza, epistemologia della prova, libero convincimento del giudice e giustificazione razionale della decisione, si segnala il progressivo irrompere della scienza nel processo penale e, nello stesso tempo, si avverte il persistere del dramma di giudicare in condizioni di incertezza probatoria, pur quando l’indagine sui fatti di reato e la loro ricostruzione viene sempre più spesso affidata a modelli scientifici, introdotti attraverso il sapere specialistico del consulente tecnico o del perito.
Il ragionamento probatorio poggia su una struttura inferenziale il cui cardine è costituito dalle leggi scientifiche e statistico-quantitative, oltre che dalle massime d’esperienza, formanti l’enciclopedia o il repertorio di conoscenze empiriche dell’uomo medio, che il senso comune offre come strumento conoscitivo per la valutazione del fenomeno probatorio in un determinato contesto storico e culturale, ma la cui portata applicativa è destinata sempre più a restringersi, perché il giudice in tanto può utilizzarle in quanto non si risolvano in congetture o mere intuizioni e non siano addirittura contrastanti con conoscenze o metodi scientifici riconosciuti e non controversi.

Le ricerche fondate sull’accertamento del DNA costituiscono probabilmente la prova scientifica che negli ultimi anni ha avuto la più amplia applicazione nelle aule di giustizia. Sul versante della prova penale scientifica, il test del DNA costituisce sia un accertamento fondamentale nell’ambito delle tecniche d’indagine, sia una tappa obbligata per lo studio dei rapporti tra scienza e processo.
Il test del DNA rappresenta altresì un modello esemplare mediante il quale verificare il rispetto dei principi di ragionevole dubbio e del contraddittorio nella formazione della prova da parte del sistema processuale penale. Il complesso accertamento in questione, infatti, solo apparentemente è sempre affidabile oltre il ragionevole dubbio, dipendendo il risultato sia dalle modalità operative concrete, sia finanche dalla presentazione in giudizio da parte dell’esperto.
Il DNA profiling trova elettiva indicazione ai fini dell’identificazione individuale in diversi casi fra i quali: l’identificazione di cadavere sconosciuto attraverso il confronto del DNA cadaverico con quello di possibili familiari, l’identificazione di vittime di catastrofi naturali, di incidenti aerei e marittimi, di operazioni belliche, casi di incesto o di violenza sessuale in cui sia stato possibile rivenire tracce biologiche, casi di dubbia o controversa identità, casi di dubbia o controversa paternità e di alterazione dello stato civile.
L’uso del DNA umano in chiave identificativa si basa sul principio che vi sono alcune porzioni di cromosoma (geni) le cui molecole sono variabili da individuo ad individuo e sono trasmesse ereditariamente.
La lunghezza della sequenza, il numero delle sue ripetizioni, la sua collocazione all’interno della catena del DNA sono specifici e unici per ciascun individuo. È praticamente impossibile che due persone abbiamo in comune l’intero codice identificativo, fatta eccezione per i gemelli omozigoti.
L’applicazione forense dei profili di DNA risale al 1985 per iniziativa del biologo inglese Alec Jefreys ed ha in gran parte sostituito le tradizionali indagini sui gruppi sanguigni. Infatti, mentre queste consentono al massimo di stabilire la compatibilità della traccia con il sangue dell’eventuale sospettato, il DNA giunge a determinare con elevatissima probabilità, se non addirittura con certezza, che la traccia in questione appartiene proprio all’indiziato.
L’indagine può essere eseguita su qualsiasi reperto che contenga cellule nucleari, in particolare su soggetti viventi il cui tessuto elettivo è il sangue, mentre sui cadaveri possono essere utilizzati il sangue cadaverico anche dopo diverso tempo se opportunamente congelato a 25 gradi, o altri tessuti come muscolo scheletrico, cuore, polmoni, fegato, persino denti, sulle tracce di sangue, di liquido biologico, tessuti organici, capelli, saliva.
La più spettacolare transizione nel settore si è verificata gli inizi degli anni Novanta, quando la metodologia del fingerprinting, basata su un procedimento di laboratorio ingegnoso, ma molto difficile da riproduttore, la Southern Blot Analysis, è stata sostituita dall’introduzione della Polymerase Chain Reactio, che ormai tutti conoscono con l’acronimo PCR. Questa, inventata negli Stati uniti dal nobel Kary Mullis, ha rivoluzionato non solo la genetica forense, ma l’intera genetica e biologia molecolare.
La PCR costituisce una specie di fotocopiatrice molecolare, capace in presenza di un originale di buona qualità (il DNA nella sua interessa e senza particolari modificazioni nella sua struttura) e di un buon numero di fogli bianchi (quattro nucleotidi, le componenti basilari della molecola del DNA, più due sequenze oligonucleotidiche che funzionano da segnale di inizio e di fine della copiatura), di riprodurre qualche milione di copie da una sequenza remotamente dispersa nel genoma umano.
I vantaggi di PCR sono stati subito evidenti a tutti: la qualità, anche molto piccola di DNA di partenza può essere moltiplicata enormemente, semplificando la successiva analisi qualitativa, mentre le copie del DNA di partenza possono essere prodotte anche se l’originale da copiare è molto “malridotto” o chimicamente contaminato/inquinato.
Nonostante la PCR sia una tecnica molto potente e versatile, molti sono i suoi limiti. Alcuni fattori, infatti, inceppano il funzionamento della fotocopiatrice molecolare, fra questi: la componente degradata eme dell’emoglobina, il colore blu di un capo jeans e molte sostanze chimiche coestratte insieme dal DNA dalla inerente procedura di laboratorio. Quando l’inibizione prodotta da uno di questi fattori agisce sul campione, il procedimento tende a non copiare più e a non dare risultato.
La procedura con PCR è “onnivora”, nel senso che è capace di intercettare le molecole di DNA a prescindere dalla loro provenienza. Le molecole di DNA sono capaci di viaggiare da un luogo fisico all’altro, spinte da fattori apparentemente banali come, ad esempio, le goccioline di respiro dell’analista o di chi lo ha preceduto a contatto con un reperto, o ancora il contatto fisico con le mani di chi ha maneggiato un reperto. Così il processo di copiatura riproduce un originale “sbagliato” o, peggio, una molecola di DNA originale e di DNA estraneo. Ciò può generare errori difficili da identificare.
Il test del DNA è comunque considerato attendibile nel metodo. Le questioni di controversia si basano su altre argomentazioni, quali le modalità di raccolta e conservazione, le valutazioni statistiche, i controllo di qualità condotti dai laboratori.
Di tutto questo si deve tener conto, come non si può trascurare il problema relativo alla valutazione della prova all’interno del sistema giudiziario.
Di grande interesse è la sentenza 28 giugno 1993 della Corte Suprema Federale degli Stati Uniti, relativa al caso Daubert, nella quale sono stati indicati i criteri idonei a valutare la validità e l’attendibilità delle prove scientifiche: la controllabilità, falsificabilità e verificabilità della teoria o tecnica posta a fondamento della prova; la percentuale di errore conosciuto o conoscibile; la possibilità che la teoria o tecnica abbia formato oggetto da parte di altri esperti purché divulgata in pubblicazioni scientifiche o con altri mezzi; la presenza di standard costanti di verifica; il consenso generale da parte della comunità scientifica.
Si tratta di criteri non tassativi, dai quali il giudice può discostarsi ed utilizzarne altri, come ad esempio i sedici criteri proposti da Farley, alcuni dei quali rivestono un particolare interesse perché possono costituire ulteriori parametri utilizzabili per la valutazione di affidabilità della prova scientifica (si pensi alla qualificazione scientifica del consulente, al precedente impiego della tecnica in ambito forense, al margine di soggettività nell’interpretazione dei risultati, all’esistenza di conferme esterne all’accertamento etc).
Con riferimento alla prova del DNA va rilevato come già dal 1994 undici Stati federali consideravano la prova genetica ammissibile senza la preventiva testimonianza dell’esperto.
La prova del DNA rientra dunque tra quegli strumenti scientifici e di elevata specializzazione che richiedono conoscenze ulteriori rispetto alla scienza privata del giudice o al sapere delle parti, essendo per queste ragioni ascrivibile alla categoria della prova scientifica.
Nel nostro ordinamento l’esperimento di questo tipo di prova si distingue nelle due fasi della raccolta del materiale biologico, quale fase descrittiva, e dell’analisi del DNA, quale fase critico-valutativa. Sono riconducibili alla prima gli accertamenti e i rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose, ex art. 354, comma 2, c.p.p., gli accertamenti e i rilievi sulle persone diversi dall’ispezione personale, anche qualora comportino il prelievo di materiale biologico, ex art. 354, comma 3, c.p.p., nonché il prelievo coattivo di capelli o saliva dalla persona sia pure ai fini dell’identificazione dell’indagato ai senti dell’art. 349, comma 2 bis, c.p.p. Si tratta di operazioni materiali a contenuto descrittivo attraverso le quali la polizia giudiziaria si limita ad acquisire elementi relativi alle tracce del reato e ad altri elementi ad esso pertinenti. È, invece, riconducibile alla seconda fase la valutazione critica di quelle tracce mediante specifiche procedure tecnico-scientifiche, valutazione che si sostanzia in un riscontro di natura peritale.
Le perizia costituisce il mezzo attraverso il quale la legge veicola l’acquisizione della prova del DNA al processo. Tuttavia, si tratta di una prova nuova al cospetto dell’esperienza giudiziaria, la prova scientifica può essere ammessa previa applicazione in via analogica dell’art. 189 c.p.c., dopo il vaglio del giudice sull’idoneità probatoria e sulla non lesività della libertà morale della persona, nel contraddittorio tra le parti.
Oltre alla fase di ammissione, anche la fase di formazione della prova scientifica è senz’altro informata al metodo dialettico. È importante, però, tenere conto dei limiti propri del contraddittorio su questo tipo di prova, che tende sempre più dislocarsi altrove, cioè “prima” e “fuori” del dibattimento, come prova precostituita, rispetto alla quale il dibattimento s’atteggia nelle forma del contraddittorio non “per la prova”, quanto piuttosto di mera critica “sulla prova”.
A tal fine si può affermare che il contraddittorio, tanto nella fase di ammissione, quanto in quella di assunzione, rappresenta l’unico metodo possibile per la formazione della prova scientifica: esso non solo risponde ad esigenza di garanzia di parità delle parti, di cui si fa normalmente carico, ma assicura anche il miglior metodo epistemologico per la ricerca della verità processuale.

Molta strada nel nostro ordinamento è ancora da compiere per poter realizzare un adeguato impianto normativo in tema di formazione e valutazione della prova del DNA.
A livello operativo, il primo indispensabile passo concerne la formazione di una banca dati del DNA che tenga conto anche dei problemi legati ad una eventuale violazione della privacy. Invero, una volta rinvenuti o ricercati i necessari reperti biologici, si tratta di procedere ad una comparazione per potersi accertare, tramite il DNA, dell’identità di una persona indagata. A tal fine, sovviene come elemento di massima utilità quanto contenuto nella memoria delle banche dati, che possono essere organizzate tanto a livello nazionale che sovranazionale.
I legislatori di diversi Paesi Europei hanno consentito la costituzione di database di DNA, all’interno dei quali sono inseriti miglia di profili genetici.
Nel nostro ordinamento vi sono stati tanti tentativi di legiferare al riguardo, mai però portati a conclusione, inerenti tanto l’istituzione di una banca dati del DNA, quanto i presupposti e le modalità degli accertamenti biologici. Si tratta di tentativi volti a soddisfare le esigenze concrete di investigazione e, altresì, rispondere a quelle sollecitazioni lanciate dalla Corte Costituzionale circa l’individuazione di casi e modi per procedere ad accertamenti probatori sulla persona. Ciò che è importante è la capacità di armonizzare la prova e la sua ricerca tramite l’analisi del DNA con i principi cardine sanciti nella nostra Carta Costituzione, ossia la libertà, il rispetto e l’intangibilità della persona umana.
A questo proposito, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 238/96 si è pronunciata nel senso che la garanzia della riserva assoluta di legge di cui all’art. 13 Cost. implica l’esigenza di tipizzazione dei “casi e dei modi” in cui la libertà personale può essere legittimamente compressa. Un rinvio alla legge che non può tradursi in un ulteriore rinvio alla piena discrezionalità del giudice, ma che richiede una previsione normativa idonea ad ancorare a criteri obiettivamente riconoscibili la restrizione della libertà personale.
Con questa sentenza la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 224 comma 2 c.p.p. nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che incidano sulla libertà personale dell’indagato, dell’imputato o di tersi, al di fuori di quelle specificatamente previste nei casi e nei modi dalla legge.
Stando alle conclusioni della Corte Costituzionale, fino a quando il legislatore non sarà intervenuto ad individuare i tipi di misure restrittive della libertà personale che possono essere disposte dal giudice allo scopo di consentire (anche contro la volontà della persona sottoposta all’esame) l’espletamento della perizia ritenuta necessaria ai fini processuali, nonché a precisare i casi e i modi in cui le stesse possono essere adottate, nessuna misura di tal genere potrà essere disposta.

Bibliografia

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Angela Allegria
Giugno 2013
In Nuove Frontiere del Diritto

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