Posted by Angela | 0 Comments
La riforma Basaglia: una rivoluzione di civiltà
“[…] Perché prima quelli che erano qui pregavano di morire. Quando moriva uno qui una volta suonava sempre la campana, adesso non usa più. Quando suonava la campana tutti dicevano: oh Dio, magari fossi morto io, dicevano, che sono tanto stanco di fare questa vita qui dentro. Quanti di loro non sono morti che potevano essere vivi e sani. Invece avviliti, perché non avevano nessuna via di uscita, non volevano più mangiare. Gli buttavano giù il mangiare per il naso con la gomma, ma non c’era niente da fare, perché si trovavano chiusi qui dentro e non avevano nessuna speranza di uscire. Come una pianta quando è arsa perché non piove e le foglie appassiscono, così era qui la gente”.
Così inizia l’introduzione documentaria a cura di Nino Vascon de L’istituzione negata di Franco Basaglia. Queste parole, pronunciate con enorme sofferenza da un uomo anziano, cieco, che ha trascorso la maggior parte della sua vita all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, senza mai uscire dai reparti, fanno riflettere sulle condizioni di detenzione dei malati mentali prima del 1978, anno della riforma Basaglia.
Il malato di mente, il pazzo, giungeva in manicomio con una etichetta ben precisa, una “stigma”, come la definisce Goffman, simbolo del potere di una autorità che lo isola proprio perché diverso. E, infatti, una volta etichettato, isolato, il malato di mente veniva rinchiuso e costretto a una vera e propria detenzione: spesso era legato al letto, incapace di muoversi, privato non solo della sua libertà personale, ma della dignità stessa di essere umano. I trattamenti che venivano praticati e che potevano andare dall’elettroshock alle dosi elevate di psicofarmaci, dalle misure coercitive alla sperimentazione sui pazienti di medicinali di nuova invenzione, fino alla pratica di coprire il capo del malato con un lenzuolo e cospargerlo con l’acqua per provocare la perdita dei sensi, venivano giustificati come terapeutici. In realtà costituivano vere e proprie forme di violenza sociale su persone fragili che avevano già dovuto subire violenza da parte della famiglia e della società per il loro mancato adeguamento al conformismo sociale.
Già ai sensi della legge n. 36 del 1904 il malato di mente era l’unico malato che non ha diritto ad essere malato perché definito “pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo”.
Diventava in tal modo un uomo-oggetto, affidato al gioco della sorte: se aveva denari, passando attraverso il dedalo delle cliniche, avrebbe potuto evitare l’infamante caduta del timbro sulla sua fedina penale, se non ne aveva, sarebbe finito nel ghetto degli esclusi.
Questo, secondo Basaglia, è il risultato di una società incapace di guardarsi allo specchio, di accettare le proprie contraddizioni come prodotto del sistema su cui si fonda, mentre preferisce definirsi “malata”.
L’antipsichiatria a cui aderisce Basaglia, che accusa la scienza ufficiale di concentrare la propria attenzione solamente sulla malattia individuale e sulle sue basi organiche, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici, ha lo scopo di tutelare i diritti di queste persone e lasciarle libere di esprimersi e di reinserirsi nel tessuto sociale.
È questa società che Basaglia vuole curare, lui, medico, non una cosa, come sottolinea in un’intervista, e con questo evidenzia la carica emotiva, la consapevolezza, la necessità di non voler accettare questa situazione e di cambiare le cose per restituire dignità e diritti ai malati di mente.
Tutto inizia con un “No”.
“– Noi neghiamo dialetticamente il nostro mandato sociale che ci richiederebbe di considerare il malato come un non-uomo e, negandolo, neghiamo il malato come non-uomo.
– Noi neghiamo la disumanizzazione del malato come risultato ultimo della malattia, imputandone il livello di istruzione alle violenze dell’asilo, dell’istituto, delle sue mortificazioni e imposizioni; che ci rimandano poi alla violenza, alla prevaricazione, alle mortificazioni su cui si fonda il nostro sistema sociale.
– La depsichiatrizzazione è un po’ il nostro leit-motiv. È il tentativo di mettere fra parentesi ogni schema, per agire in un terreno non ancora codificato e definito. Per incominciare non si può che negare tutto quello che è attorno a noi: la malattia, il nostro mandato sociale, il ruolo. Neghiamo cioè tutto ciò che può dare una connotazione già definita al nostro operato. Nel momento in cui neghiamo il nostro mandato sociale, noi neghiamo il malato come malato irrecuperabile e quindi il nostro ruolo di semplici carcerieri, tutori della tranquillità della società.
– Non è che noi prescindiamo dalla malattia, ma riteniamo che, per avere un rapporto con un individuo, sia necessario impostarlo indipendentemente da quello che può essere l’etichetta che lo definisce… Nel momento in cui dico: questo è uno “schizofrenico” (con tutto ciò che, per ragioni culturali, è implicito in questo termine) io mi rapporto con lui in modo particolare, sapendo appunto che la schizofrenia è una malattia per la quale non c’è niente da fare: il mio rapporto sarà solo quello di colui che si aspetta soltanto della “schizofrenicità” dal suo interlocutore… Per questo è necessario avvicinarsi a lui mettendo fra parentesi la malattia perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichetta mento che va oltre il significato reale della malattia stessa. La diagnosi ha il valore di un giudizio discriminante, senza che con ciò si neghi che il malato sia in qualche modo malato. Questo è il senso della nostra messa fra parentesi della malattia, che è messa fra parentesi della definizione dell’etichettamento. Ciò che importa è prendere coscienza di ciò che è questo individuo per me, quale è la realtà sociale in cui vive, qual è il suo rapporto con la realtà. Per questo le riunioni sono importanti, perché sono il terreno in cui è possibile un confronto al di là di ogni categorizzazione”.
Medici, operatori e pazienti vestono abiti civili, i reparti vengono aperti, i cancelli sono spalancati e questo neutralizza il pericolo di fuga (non si può fuggire da un posto aperto!) e poi le assemblee.
Le assemblee che ha istituito Basaglia, da svolgersi più volte in una giornata, hanno un duplice fine: da un lato, offrono al malato, all’interno dell’ospedale, la possibilità di scegliere fra varie alternative, prima fra tutte la decisione se recarsi o meno all’assemblea, e se no, se rimanere in reparto, occuparsi di altre attività secondarie, non far nulla, dall’altro lato, creano un terreno di confronto e di verifica reciproca. Il loro fine è quello di aumentare la spontaneità e la presa di consapevolezza delle persone e di stimolarli a mettersi in gioco.
Franco Rotelli sottolinea come l’istituzione messa in discussione non fu il manicomio ma la follia: “Perché volemmo quella deistituzionalizzazione? Perché per noi l’oggetto della psichiatria può e deve essere non quella pericolosità né questa malattia (intesa come qualcosa che sta nel corpo o nella psiche di questa persona). L’oggetto fu sempre per noi invece l’esistenza-sofferenza dei pazienti ed il suo rapporto con il corpo sociale. Il male oscuro della psichiatria è stato nell’aver costituito istituzioni sulla separazione di un oggetto fittizio, la malattia, dall’esistenza complessiva del paziente e dal corpo della società”.
La contraddizione aperta dalla liberazione dell’internato e dalla creazione di alternative che lo faccessero uscire dall’unica dimensione istituzionale in cui era costretto, lascia inevitabilmente nell’angoscia il corpo curante, compresi gli infermieri; angoscia che è inversamente proporzionale al grado di coinvolgimento e di partecipazione che si riusciva a creare. Si tratta di una crisi che è essa stessa elemento di rottura, per la messa in discussione dei ruoli e per la presa di coscienza della delega in essi implicita. Ma la crisi in cui cade un’organizzazione, nel momento in cui si rompe la rigidità dei ruoli di tutti coloro che ne fanno parte, deve essere affrontata come una contraddizione costante, avendo il gruppo curante non solo la responsabilità della liberazione del manicomio, in quanto luogo di violenza e di segregazione, ma anche quella del graduale riappropriarsi della libertà degli internati, in precedenza distrutti da questa violenza e da questa
segregazione.
La libertà acquisita dai degenti limita implicitamente la libertà di cui, per tradizione, gode il gruppo curante, e che coincide con la libertà della società, di cui i tecnici e le leggi sono garanti. L’impegno totale nei confronti dell’internato è uno dei segni della partecipazione alla sua oggettivazione, per arrivare alla conquista della soggettivazione di tutti: internati, infermieri e medici. Ma questa limitazione, implicita nella responsabilità nei confronti dell’impresa comune della trasformazione, è talvolta vissuta dai tecnici come un’imposizione autoritaria (l’autorità, altra ambiguità e altra paura da sfatare nel momento in cui si voglia raggiungere una finalità comune) che limita la
loro autonomia e il senso di onnipotenza incorporato nelle rivolte studentesche.
Il manicomio in trasformazione viene facilmente vissuto come se si trattasse di un terreno liberato, che non comporta compromissioni con l’organizzazione sociale, amministrativa, burocratica, e dove l’azione possa agganciarsi direttamente alla lotta politica generale, senza mediazioni attraverso lo specifico particolare.
“La riforma istituzionale – spiega Giovanni Jervis – è solo in parte derivabile dalla psichiatria moderna. Gli esempi dei manicomi aperti nell’Ottocento non dimostrano soltanto che è possibile liberalizzare un Ospedale Psichiatrico senza l’aiuto dei sedativi oggi in uso, ma anche che esiste sempre un terreno empirico sul quale non è poi così difficile iniziare la rottura del circolo vizioso manicomiale. Se la violenza istituzionale scompare, scompare anche la violenza del malato di mente, e quest’ultimo cambia faccia, perde le sue caratteristiche psicotiche descritte nei vecchi trattati, scompare come catatonico, agitato, laceratore, pericoloso per riproporsi nella sua vera luce: nel suo aspetto, cioè, di una persona che è stata psicologicamente violentata prima e dopo il suo ingresso in manicomio. Il malato di mente perde le sue caratteristiche incomprensibili nella misura in cui riesce a inserire il proprio disagio in un contesto che ne rispetti l’esistenza e le ragioni”.
Giovanna Giudici sottolinea la valenza negativa della contenzione e gli effetti a cui essa porta: “La buona pratica – afferma – non parte da un gesto generoso del medico verso la persona sofferente, gesto che può essere tradito mille volte al giorno da un dolore più o meno nascosto, da una aggressività con o senza giustificazione, da una violenza che ferisce. La buona pratica è il risultato di una volontà collettiva di partire comunque dal rispetto e dalla libertà della persona che spesso proviene da una storia in cui questo rispetto e libertà sono venuti meno o non sono mai esistiti. La buona pratica cresce e si sviluppa attorno a questo nucleo centrale, da cui si dipana ogni altro intervento. La contenzione blocca questo sviluppo nell’atto stesso che parte dal massimo dell’umiliazione e della mortificazione della persona e ripropone la copertura della nostra incapacità ad affrontare diversamente la sofferenza e la violenza, con una risposta irresponsabile di violenza e di difesa di sé, di violenza da parte del più forte, di chi è in condizione di porre una distanza fra sé e l’altro: il ruolo, le regole, l’istituzione, il potere. Contro tutto questo si è lottato per anni e si è dimostrato possibile perseguire altre strade con il supporto di operatori formati e motivati che reggano l’impatto senza ferire, senza umiliare, con la costruzione di un ambiente e di un clima non violento, libero nel suo complesso, che fa capire come altri passi siano possibili e della stessa natura”.
Grazie all’intervento di Franco Basaglia e del suo gruppo l’Italia è l’unica nazione al mondo che dal 1978 ha vietato per legge la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici e che ha proibito altresì il ricovero in quelli, medio termine rimanenti, di cittadini e stranieri. Ciò è avvenuto con la legge del 13 maggio 1978, n. 180, titolata “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” che ha inoltre sostituito per intero le funzioni assolte dall’ospedale psichiatrico con strutture diverse.
La riforma, che prende il nome di legge Basaglia, è una legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Essa confluì nella legge del 23 dicembre 1978, n. 833, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.
La sostituzione di un’istituzione chiusa e totale con un’alternativa fondata sulla volontarietà della cura e l’abolizione dell’esclusione conduce ad un disvelamento per cui, data l’impossibilità di proporre soluzioni puramente tecniche in un sistema che esige risposte e azioni politiche, agli psichiatri spetta di attuare uno “smascheramento” così da evitare che la soluzione tecnica si riduca ad agire da copertura a problemi che non hanno niente a che fare con la malattia e con la scienza. Tali problemi fondano i diritti costituzionali in capo ai soggetti svantaggiati e l’imprescindibile relazione che vi è tra la libertà personale e il sistema di diritti a prestazione.
Il ricovero coattivo in ospedale psichiatrico merita di essere demolito come istituto giuridico proprio per recuperare le libertà e i diritti negati.
Già nella Relazione alla Commissione di studio per l’aggiornamento delle vigenti norme sulle costruzioni ospedaliere del 1968 vi era in nuce il punto di svolta del sistema psichiatrico italiano, quello che rende anche la parte costruttiva della legislazione italiana in tutto avanzata e anticipatrice.
Basaglia teorizzava di fatto il rifiuto di accontentarsi di un riformismo moderato dell’istituzione basilare. In questo si aiutava con lo studio dei modelli stranieri di progresso normativo successivo agli anni cinquanta i quali, però, hanno sottovalutato o eluso il problema della sanzione giuridica e della forma-manicomio. Così il rovesciamento istituzionale si realizza su aspetti che si tradurranno poi, puntualmente, in singole disposizioni di legge.
L’articolo 1 della legge 180 stabilisce il carattere volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari. Tale articolo, dal punto di vista della tecnica legislativa, costituisce esempio raro di una disposizione di legge recante un divieto assoluto e tassativo.
Esso, con riguardo agli accertamenti e ai trattamenti sanitari obbligatori, è volto ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. A tal fine, stabilisce, nell’ultimo comma, che questi siano disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico in condizioni di degenza ospedaliera e solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere.
L’art. 2 prevede, inoltre, l’obbligo di motivazione per il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio.
Oltre alle guarentigie procedurali che la Costituzione impone, la legge 180 ha stabilito puntuali garanzie modali della restrizione. Esse per un verso eliminano in radice la riproposizione surrettizia del manicomio e delle sue logiche, per l’altro, individuano la restrizione della libertà personale dell’infermo come provvisoria, di breve durata e volta a gestire solo l’urgenza della crisi acuta.
L’art. 3, infatti, prescrive che qualora il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta motivata al sindaco che ha disposto il ricovero, il quale ne dà comunicazione al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune entro 48 ore. Questi a sua volta, entro 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco.
In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.
Ciò permette che la cronicità della malattia sia allontanata dal luogo chiuso.
L’ospedale psichiatrico non perde solo la centralità, ma viene dismesso come istituzione attraverso il divieto assoluto. Traccia permanente di questa dismissione e, al contempo, fondamento di un diritto ad una soluzione altra dal manicomio, è l’art. 6 della legge 180 che, relativo al numero massimo di posti letto in ospedale generale, costituisce il tentativo di integrazione tra psichiatria e medicina e assurge a uno dei tre limiti endogeni affinché l’istituto manicomiale non si ripresenti sotto mentite spoglie. Essi sono: il numero massimo dei posti letto previsti per ogni struttura ospedaliera, la tendenza a ridurre la durata di ciascun trattamento sanitario obbligatorio ivi operato e la sua natura di extrema ratio per rispondere al problema della malattia mentale.
Si tratta di un modello legislativo unico che non fornisce solo l’idealtipo del sistema, ma offre soprattutto di riconoscere la linea sotto la quale non si può più tornare indietro.
La legge 180 demandò l’attuazione alle Regioni, le quali legiferarono in maniera eterogenea, producendo risultati diversificati sul territorio che perdurano ad oggi e fanno sì che il servizio sia diversificato a seconda delle aree territoriali.
Così nel 2008 due documenti ministeriali, Raccomandazioni in merito all’applicazione di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattie mentali e Linee per l’indirizzo della salute mentale, hanno inteso richiamare i governi locali alle loro responsabilità di programmazione e a offrire servizi per la salute mentale più vicini alle persone.
Nel gennaio 2005 la Dichiarazione di Helsinki, “Non c’è salute senza salute mentale”, è stata vista da molti come l’affermazione della riforma psichiatrica italiana in Europa. I principi fondamentali sono gli stessi della legge del nostro paese e sono gli stessi che sono stati ripresi nel Libro Verde per la salute mentale che il Parlamento Europeo ha approvato alla fine del 2007, indicando con maggiore enfasi ai governi europei l’impegno che devono porre nell’affrontare le questioni di salute mentale.
Ad oggi, in seguito della legge finanziaria del 1994 all’interno della quale vengono inserite norme che impongono la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici la cui attuazione si è avuta nel 1996, gli Ospedali Psichiatrici non esistono più. Rimane il grande problema dell’abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Per garantire i diritti fondamentali dell’uomo anche a queste persone la battaglia continua.
Bibliografia
– F. BASAGLIA – F. BASAGLIA ONGARO, Crimini di pace, Milano, 2009.
– F. BASAGLIA, L’Istituzione negata, Milano, 2010.
– F. BASAGLIA – F. BASAGLIA ONGARO, La maggioranza deviante, Milano, 2010.
– R. D’ALESSANDRO, Lo specchio rimosso, Milano, 2008.
– P. DELL’ACQUA, Fuori come va?, Milano, 2010.
– E. GOFFMAN, The Insanity of Place, in Psychiatry. Journal for the Study of Interpersonal Processes, vol. 32, n. 4 novembre 1969.
– D. PICCIONE, Riflessi costituzionalistici del pensiero di Franco Basaglia, a trent’anni dalla morte, in Giust. Cost., 2010, f. 5, pp. 4137 e ss.
– F. ROTELLI, L’Istituzione Inventata, in For mental health, 1988, n. 1
Angela Allegria
Agosto 2013
In Nuove Frontiere del diritto