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La trottola saccente con il nasino all’insù
Una trottola, un folletto capace di saltellare in continuazione da una compagnia all’altra, imponendo la sua buffa presenza anche a chi le faceva capire in maniera non equivoca che non era apprezzata. Con le sue codine buffe ed i vestiti dai colori sgargianti, capaci di evocare un arcobaleno, o la bandiera della pace, a lei tanto cara, Silvietta spuntava come un fungo, o meglio come un cappero, visto il suo colorito verdognolo, e in poco tempo, piroettando, trotterellando e ridendo, entrava sulla scena come a teatro, capace di impersonare uno sbadato Sbirulino. E del simpatico personaggio creato da Sandra Mondaini, sembrava proprio la figlia, vuoi per le espressioni buffe, vuoi per l’abbigliamento curioso, vuoi per quella strampalata vocina che si poteva sentire da un capo all’altro del piccolo paese siciliano dove era nata.
D’estate nuotava come un pesce, riempiendo di spruzzi gli amici, costruendo ancora castelli di sabbia accompagnati da sorrisi e battute divertenti, buttate giù senza riflettere, d’inverno, finiti i compiti, leggeva fino a notte fonda e con la mente riviveva le avventure dei personaggi, conversava con loro, si trovava ad immaginarne i luoghi e le atmosfere suggestive.
La sua espansività, creata ad hoc per essere accettata dagli altri, non riscuoteva sempre larghi consensi. I suoi coetanei, che lei considerava amici già dalla prima volta che scambiavano due chiacchiere, infatti, non avevano la stessa visione dell’amicizia di Silvietta e tendevano a dimostrarglielo in ogni modo, soprattutto quando lei, non invitata, si presentava agli appuntamenti con la solita frase “Passavo di qui e vi ho visti”.
Per cercare una forma di aggregazione i suoi genitori sin da piccola l’avevano iscritta a gruppi di danza ed esperienze di volontariato in parrocchia, esperimenti che riuscivano ad impegnarla e a porgerle una diversa visione della vita.
Eppure, nonostante era stata in Africa con il gruppo della parrocchia e aveva toccato con mano la povertà, ma anche l’ospitalità sincera di quella gente, Silvietta pensava ancora che la vita fosse fatta di cuoricini rosa, di spensieratezza e di quell’alone di zucchero a velo che ogni bambino chiede con insistenza ai genitori quando si reca alle giostre.
Visione positiva, ottimista o eccessivamente distorta della realtà?
In ogni caso la vita non tardò a metterla alla prova.
La prima esperienze fu quella universitaria. Scelta la facoltà, Silvietta si rese conto che il suo entusiasmo, la sua voglia di vedere tutto bello esigeva anche una critica profonda degli schemi, non solo comportamentali, ma anche stilistici delle materie che le venivano proposte.
Nell’approccio con i nuovi programmi – aveva scelto lettere classiche – si trovò a contatto con metodi del tutto diversi da quelli usati nel suo piccolo liceo di provincia e soprattutto un ostacolo si erse immediatamente davanti a lei: la mancanza di ragionamento critico.
Ogni cosa, anche la più banale, era giudicata da Silvietta con le espressioni “Bella!”, “Bellissima!”, “L’adoro!”, ma quando qualcuno le chiedeva il motivo del suo apprezzamento, ecco che si arrabattava con frasi scontate, che magari potevano fare effetto sulla prof. del liceo, ma non sugli eruditi docenti dell’Urbe.
Per rimediare Silvietta cominciò a seguire conferenze e frequentare seminari. Le piaceva approfondire la letteratura greca, si incantava innanzi alla lettura di Euripide e, quando tornava a casa, rileggeva subito i brani, per memorizzarli e poterli utilizzare sia durante gli esami che in Sicilia, innanzi a quelle persone che le chiedevano come andassero gli studi.
Eppure, nonostante questo, la sua capacità critica non veniva fuori. Però, sfruttando la creatività, riuscì a fare collegamenti fra gli argomenti, dando vita ad un collage di opinioni che, accompagnate dalle sue innate capacità logorroiche, riusciva a superate gli esami con tanto di trenta.
Il suo difetto maggiore, invadenza a parte, era costituito dalla mancanza di capacità di ascolto, che le impediva di acquisire, più che dai libri, esperienze di vita vissuta.
Questo ostacolava anche la sua capacità di relazionarsi con gli altri, fossero essi di sesso maschile o femminile.
Silvietta era convinta che le donne, in base ad una qualche solidarietà femminile, la potessero proteggere, le dessero buoni consigli, non la potessero ingannare.
Sull’universo maschile era un po’ scettica: aveva avuto due delusioni importanti, seppure si era donata in toto, ed era riuscita ad annullare completamente la sua personalità pur di compiacere il suo ragazzo.
Adesso, per il momento, aspettava che il classico principe azzurro, con tanto di cavallo bianco e piuma sul cappello, la venisse a trovare anche in capo al mondo.
Un giorno però cambiò completamente la visione della vita di Silvietta.
Svenuta per l’eccessivo caldo vicino ad un stradina che porta a Campo dei fiori, dove è posta la statua di Giordano Bruno, era rimasta lì per qualche ora, nella totale indifferenza della gente.
Svegliatasi da sola, aveva chiesto aiuto ai passanti per rimettersi su, ma questi l’ avevano guardata male o avevano apostrofato qualcosa del tipo “Via brutta tossica!” Lei che non aveva mai fumato uno spinello in vita sua.
Tornata a casa, le colleghe con cui divideva il canone d’affitto l’avevano consolata per un qualche senso d’umanità, ma le avevano anche spiegato che ormai la diffidenza verso gli altri aveva preso il sopravvento nella gente, incapace anche di un piccolo gesto di solidarietà per paura di essere derubata o di trovarsi coinvolta in faccende poco limpide.
Questo fu davvero un brutto colpo per Silvietta la quale cadde dalla sua nuvola rosa, dal suo mondo fatato, spiaccicata a terra, non solo fisicamente, a contatto con il ruvido e rovente asfalto della realtà.
Cominciò ad essere diffidente, a prendere le distanze dagli altri, che non cercavano la sua compagnia anche e soprattutto per le sue arie da professoressa acida pronta a correggere ogni imperfezione linguistica dall’alto del suo essere saccente.
Rimase così, ancora una volta, con atteggiamenti costruiti anche quando, dopo la laurea, tornò in Sicilia, orgogliosa di essere chiamata da tutti “A professoressa”.
Ma il tempo passava e i suoi genitori, per paura che restasse zitella – in fin dei conti aveva appena trent’anni – la convinsero a sposare un già attempato professore che aveva mostrato interesse nei suoi confronti.
Cerimonia in chiesa, abito bianco stile principessa con strascico lunghissimo, ricevimento in villa antica e poi, la prospettiva di vivere per sempre con quell’uomo il quale, seppur affascinante, era totalmente indifferente a Silvietta.
Innanzi alla domanda del sacerdote Silvietta rimase in silenzio, si voltò verso la madre che le faceva segno con il capo di dire “Si”, diede uno sguardo alla chiesa stracolma di parenti e di amici soprattutto del futuro marito, guardò ancora il volto bonario del professore e svenne.
Poco dopo in sagrestia, al suo risveglio, Silvietta sentiva i pianti dei parenti nella stanza accanto, soprattutto della madre e delle zie, voci indistinte che sicuramente avrebbero mormorato i classici pettegolezzi, ma non capiva che cosa fosse successo e chi fosse quel ragazzo davanti a lei.
“Finalmente ti sei svegliata. Va tutto bene” disse colui che doveva essere un dottore, anche se dall’aspetto sembrava più un agricoltore che un medico.
“Sei svenuta. Il tuo futuro marito e i tuoi parenti sono molto preoccupati. Se stai meglio, posso avvertirli che fra poco la cerimonia può riprendere. Se sei sicura di ciò che stai per fare” continuò.
Silvietta era ancora più confusa da quell’ultima frase pronunciata da una persona dall’aria familiare, ma che non ricordava chi fosse.
Il medico lo intuì e si presentò: “Silvietta, non ti ricordi di me? Sono Tommaso, eravamo in quarto ginnasio insieme”.
Si, adesso si ricordava, Tommaso, il ragazzino che diventava rosso ogni volta che parlava con lei.
Silvietta sorrise, ma, appena il professore, bussò per chiedere notizie della futura sposa, fece segno a Tommaso di non essere ancora pronta.
Il medico ebbe la conferma di ciò che aveva sospettato in precedenza e le disse: “Possiamo aspettare ancora qualche minuto, ma poi devi decidere: o torni in chiesa e sposi quell’uomo che non ami, oppure ho qui fuori la moto. La scelta è solo tua”.
Silvietta si alzò, sistemò alla meglio il velo, prese un grande respiro, aprì la porta e alla vista di tutta quella gente immaginò la sua vita a fianco del professore. Si girò verso Tommaso e le porse una mano sorridendo.
Lasciarono così centosettantatre invitati sbalorditi nel vedere la sposa scappare con l’ex medico condotto, un uomo strano che aveva lasciato tutto per dedicarsi all’agricoltura.
Dopo un paio d’ore di corse in moto, vicino alle rovine di Selinunte, Tommaso le dichiarò il suo amore, coltivato in segreto per dodici lunghi anni e Silvietta, sconvolta dal trambusto, ma euforica perché per la prima volta nella sua vita aveva preso una decisione da sola, lo abbracciò forte.
In questo momento, sulla domanda di matrimonio di Tommaso, non ci crederete, Silvietta, seppur felice, sta ancora riflettendo.
Angela Allegria
17 giugno 2011
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