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L'impotenza fisica e sociale nel Bell'Antonio di Vitaliano Brancati
Nel Bell’Antonio Vitaliano Brancati esprime la sua concezione politica attraverso l’impotenza fisica di Antonio Magnano, simbolo della vera impotenza sociale dell’individuo in un’epoca caratterizzata dalla privazione dei diritti.
La vicenda di Antonio si snoda all’interno del ventennio fascista nel quale il protagonista non riesce a destreggiarsi, impossibilitato ad esprimere al meglio la propria personalità nel momento in cui rinuncia ad indossare la toga di magistrato, la propria sessualità, il proprio futuro, accettando un matrimonio combinato.
Ma andiamo per ordine: in principio Antonio appare bellissimo, capace di far girare la testa a tutte le donne, di andare tutte le sere nei casini sui cui successi i suoi amici scommettono, è sì un grande amatore a tal punto da essere chiamato a far conoscere le doti del maschio catanese innanzi ad un esponente del regime di Roma per condurlo lui stesso nella più elegante casa di tolleranza etnea.
Purtroppo la realtà è ben diversa, ma in una società nella quale l’apparenza era tutto, e anche il capo del Governo elogiava le sue arti amatorie, questa non poteva essere dimostrata, perché avrebbe sconquassato il mondo fittizio che si era costruito.
Il ritorno a casa, il fidanzamento e poi il matrimonio fanno dimenticare ad Antonio il suo problema, illudendolo di poterlo superare. Ma non è così, tanto che il suocero, il notaio Puglisi, piccolo signorotto avido di denaro, riesce a fare annullare il matrimonio mettendo a nudo l’impotenza del genero.
Antonio è un inetto, un pentito, un uomo che cerca la libertà, ma non riesce ad esprimerla nel contesto socio-politico in cui vive.
Spiega Leonardo Sciascia in “Nero su Nero” il segreto di Antonio, “il segreto di una infelicità che possiamo riscontrare nelle pagine di Tacito: l’infelicità di vivere sotto un dispotismo più o meno blando, nella corruzione, nella cortigianeria”.
Brancati ripropone il tema del “gallismo”, ma stavolta in termini drammatici rispetto alle precedenti opere, in particolare rispetto agli Anni perduti e Don Giovanni in Sicilia, pubblicati entrambi nel 1941.
La donna assume un ruolo ambivalente: da un lato è un angelo (Barbara), una “madonna”, qualcosa che emoziona a tal punto da non poter neppure pensare di sfiorare, dall’altro rappresenta agli uomini l’unico mezzo per dimostrare la propria virilità.
Il pianto liberatorio alla fine del romanzo lascia intravedere la fine di un incubo: “era più stretto, più disperato, tutto intramezzato dei sibili di un petto che, da molti anni, non si apriva a larghi respiri di felicità”.
Al centro la parola “dittatura”, non solo nel richiamo al regime fascista di quegli anni, ma anche al comunismo, un termine inteso in senso lato, quale emerge nei colloqui fra Antonio e lo zio Ermenegildo.
Brancati descrive le fine della vecchia generazione attraverso le morti di tre figure importanti: Alfio Magnano, il quale per restituire l’onore al casato si reca sotto i bombardamenti a casa di una cortigiana e lì viene trovato morto; lo zio Ermenegildo, spirito libero, che, pur socialista è incapace di opporsi veramente al fascismo, vive la sua angoscia in maniera profonda e finisce col suicidarsi col il gas; Pietro Capano, il segretario federale, bruciato vivo mentre, durante un allarme aereo cercava di farsi luce con uno zolfanello, è salvato da un uomo che lui stesso aveva mandato al confino.
Particolare importanza è attribuita alla figura del cugino Edoardo, nella quale si può intravedere lo stesso Brancati, simpatizzate del regime all’inizio, contrario quando si rende conto della verità dei fatti. Non bisogna dimenticare, infatti, che tra il 1935 e il 1939 si produce all’interno dello scrittore siciliano una profonda crisi che lo induce a riflettere sulle scelte politiche effettuate, conducendolo all’abbandono del fascismo. Il bell’Antonio viene pubblicato dieci anni dopo.
Edoardo prima si era battuto tanto per diventare podestà, poi, presa coscienza della vera essenza della forza politica che era al potere, aveva avuto talmente nausea da dimettersi e negare a tutti di aver ricoperto tale carica.
Egli cerca la “libertà”, una libertà che lo aveva portato in cella, in campo di concentramento, di nuovo in cella. Idealmente Edoardo poteva accostarsi al comunismo, come si nota dal dialogo con il soldato americano, ma anche lì, sarebbe finito in carcere per la mancanza di libertà di opinione.
Un rifiuto della dittatura in tutte le sue forme, un rigetto che, attraverso la vicenda di Antonio, coinvolge l’uomo in termini universali, incapace di realizzare se stesso in mancanza di libertà.
Angela Allegria
14 giugno 2009, n. 47
In www.operaincerta.it
Carissima Angela,
Complimenti per il tuo sito e per tutti i tuoi interessi!
Tornerò spesso a visitarlo!
In particolare, voglio complimentarmi per quest’analisi acuta ed interessante del “Bell’Antonio”: uno dei miei romanzi preferiti, che ho letto e riletto durante i miei primi anni catanesi. Spesso ho passeggiato ricalcando il tragitto di Antonio nelle sue notti insonni; ho girovagato per Catania ammirando i luoghi che si intrecciano alle vite di Antonio e Barbara. Questo romanzo mi ha aiutata a conoscere ed amare Catania, come d’altro canto hanno fatto anche “I Vicerè” con il monastero dei Benedettini.
Ti auguro di proseguire alla grande questa tua attività di scrittrice: hai già una fan (ma sicuramente più d’una!).
Con affetto e stima, Glenda
Carissima Glenda! Sono davvero contenta che sei passata! Ti ringrazio per i complimenti, sono davvero tanti!
Scrittrice è davvero tanto, a volte mi va di mettere per iscritto le mie fantasie di inguaribile sognatrice, tutto qui!
Lo stile di Brancati, il modo come descrive scene e luoghi mi fa davvero vivere le sue pagine e soprattutto guardare con occhi diversi Catania.
Appena possibile mi farebbe piacere fare il giro che faceva il bell’Antonio, quando siamo libere, se ti va possiamo farlo insieme.
Un grosso bacio a te e ai tuoi!
Angela