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Mobbing: solo illecito civile, non reato. Lo ha stabilito la V Sezione penale della Cassazione
“Il mobbing non è reato”. Lo ha stabilito la V Sezione penale della Cassazione con la Sent. n. 33624/2007 in merito a un non luogo a procedere di un gup di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di un’insegnante di sostegno, la quale ha citato in giudizio il preside della scuola presso cui lavora per mobbing.
La Suprema Corte ha in tal modo ribadito che il mobbing, insieme delle persecuzioni psicologiche che si realizzano sul luogo di lavoro per colpire ed emarginare un lavoratore, costituisce solo illecito civile, per il quale il lavoratore può agire in sede appunto civile, chiedendo il risarcimento del danno subito, ma non costituisce reato, non essendo previsto dal codice penale vigente, né da altra legge speciale.
La difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione, deriva dalla erronea contestazione del reato da parte del pubblico ministero. Infatti, l’atto di incolpazione è assolutamente incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata. La condotta di mobbing – spiega la V Sezione – suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare e di isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”.
L’istituto più vicino è quello previsto dall’art. 572 c.p., laddove parla di maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione, ma in tal caso occorre dimostrare la continuità delle vessazioni subite e la loro connessione con la patologia lamentata.
Inoltre nel caso in esame il pm non aveva contestato azioni reiterate e continuative ma solo casi di diffamazione, ingiuria e gesti ostili non specificati, azioni non direttamente lesive dell’integrità della vittima o di riscontri obiettivamente dimostrabili secondo i giudici della Suprema Corte.
“La condotta di mobbing – continua la Corte – suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità nel soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare e di isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”.
In Italia, nonostante una delibera del Consiglio d’Europa del 2000 che vincola tutti i Paesi a dotarsi di una normativa antimobbing, manca una normativa specifica che disciplini la materia.
Le ragioni di tale mancanza possono essere riscontrati nella difficoltà di una univoca delimitazione della fattispecie. La violenza da mobbing, infatti, può essere esercitata attraversi modalità indefinite ed impalpabili, soprattutto sul piano psicologico, a seconda da come viene percepita dalla vittima.
Tuttavia un parziale tentativo di contrastare tale fenomeno proviene dal decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 che, dettando disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento tra i lavoratori in merito all’occupazione e alle condizioni di lavoro, sanziona come discriminatori “quei comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od ossessivo”.
“La Commissione Giustizia della Camera esaminerà a settembre una proposta di legge sul mobbing” ha ricordato Paola Balducci dei Verdi.
Non ci resta che aspettare che l’organo legislativo italiano trovi una soluzione per arginare tale fenomeno.
Angela Allegria
31 agosto 2007