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Sette fasi per il gioco d’azzardo
Il gioco d’azzardo, di cui possiamo ritrovare testimonianze in Egitto, Cina ed India più di 5000 anni fa, è stato sempre nel susseguirsi dei secoli considerato in maniera diversa: si passa da momenti storici in cui è diffuso un senso di permissivismo a periodi in cui si assiste ad una sorta di idealizzazione del gioco stesso, il quale, in tale ottica, diviene una sorta di attività nobiliare.
Nella società attuale il gioco d’azzardo è considerato alla pari della dipendenze da sostanze.
Che si tratti di situazioni sovrapponibili lo afferma anche il Decreto Ministeriale 14 giugno 2002, nel quale è affidato al Dipartimento per le Dipendenze Patologiche, presso le Aziende Unità Sanitarie Locali, “il trattamento, il reinserimento e la prevenzione dei problemi correlati all’uso di sostanze psicotrope legali ed illegali e per i comportamenti assimilabili e correlati (disturbi dell’alimentazione, gioco d’azzardo, videodipendenza etc.”.
Da una serie di studi emerge che è proprio il comportamento di appetizione verso il gioco d’azzardo, al di là della vincita o delle perdite le quali si riversano in termini di conseguenze negative sui rapporti familiari, economici e sociali, ad esprimere il carattere di dipendenza patologica dal gioco.
Custer nel 1983 parlò di sette fasi in cui si articola il gioco d’azzardo patologico, fasi che, per la diversa natura dei soggetti coinvolti, hanno durata diversa.
Egli distingueva una prima fase vincente, nella quale un approccio occasionale al gioco con possibilità di vincita rappresenta un’esperienza esaltante, che aumenta maggiormente in base alla maggiore posta in gioco.
Segue la fase perdente, che vede il giocatore, concentrato solo sul gioco, soggetto ad una serie di perdite, sempre maggiore.
La terza fase, quella della disperazione, è caratterizzata dalla totale perdita di controllo del soggetto sul gioco, la quale sfocia nella fase cruciale, ovvero in quella fase in cui, dopo aver puntato parecchio se non tutto e aver assunto sempre più stress e panico dalla mancanza di fortuna, si ha anche la perdita della speranza. In tale fase si manifesta un crollo emotivo che, nei casi più gravi, può portare ad estreme conseguenze.
Nella fase critica il soggetto mostra un desiderio realistico di smettere di giocare, che aumenta nella fase di ricostruzione grazie al ritorno al rispetto di se stessi con miglioramento dei rapporti familiari.
La settima ed ultima fase di cui parla Custer è la crescita, momento in cui diminuisce la preoccupazione per il gioco ed aumenta la capacità di introspezione e di comprensione degli altri.
Oltre agli aspetti psicologici di cui ho accennato particolare importanza assumono i profili criminologici.
Alcuni autori hanno dimostrato che il 70-80% dei giocatori d’azzardo patologici commette reati, per lo più di natura non violenta, fra i quali l’emissione di assegni a vuoto, l’appropriazione indebita, i furti sul posto di lavoro e in famiglia, le scommesse clandestine, l’evasione fiscale, le frodi tributarie e, infine, anche se in misura irrilevante, i furti, le rapine e la prostituzione.
Dottrina e giurisprudenza civile e penale non sono ancora univoche nel modo di considerare la questione in termini di punibilità: se dal punto di vista civilistico si discute se far rientrare all’interno del concetto di prodigalità anche il gioco d’azzardo, nel campo penale la questione risulta ancora aperta.
Angela Allegria
13 aprile 2007