Posted by Angela | 0 Comments
Spunti di riflessione su “Il giallo e l’azzurro” di Gaetano Celestre
“Il giallo e l’azzurro”, seconda opera di Gaetano Celestre, ripropone in una nuova luce elementi tipici dell’essere siciliano, ricostruisce il suo significato, con i propri usi e costumi, con la propria voglia di affrontare i problemi, con una romantica, passionale voglia di non fare, di rimandare.
Già dalle prime pagine, ricche di descrizioni di odori e sensazioni di calura cocente, si intravede l’immagine della Sicilia, luogo di stasi, nel quale la stabilità delle cose è perenne e duratura, dove l’uomo rimanda al giorno dopo, quasi vittima di un paesaggio violento ed imponente, della crudeltà del clima, che lo annichilisce, come a richiamare il discorso fra il principe di Salina e Chevalley di Tomasi di Lampedusa.
Il giallo di cui si occupano Piero Menardo e il suo assistente Carmelo Passatempo, la scomparsa dei gatti della signora Mariannina Callà, sottintende ad un altro delitto, quello del giornalista Salvatore Lestrigone, ucciso con la spada di un pescespada. Ma anche qui, si tratta di un escamotage usato dall’autore per mettere a fuoco la Sicilia e la mentalità dei suoi abitanti.
Viene in mente il concetto sciasciano di “Sicilitudine”, intesa come solitudine della Sicilia come isola, ma anche come sicilianità, modo di pensare, atteggiamento, mentalità tipica degli abitanti di questa terra.
La Sicilia è un fatto antropologico. Il siciliano è isolato non solo perché isolano, ma anche e soprattutto, perché è diffidente nei confronti dell’altro, perché è scettico.
In Bufalino si parla di “Isolitudine” nel senso di un popolo isolano e solo, di una Sicilia appartata e chiusa su se stessa.
In essa luce e buio sono entità contrapposte: la luce accecante del sole è oscurata dal lutto tenuto per anni dalla donne siciliane.
Nel romanzo, la cui lingua nuova è formata da termini italiani ed idiomi siciliani ricordando Camilleri, Gaetano usa l’ironia, il sarcasmo, fa sorridere, come nella descrizione della vedova Callà, “figlia di grosse mangiate quotidiane a base di pasta alla norma e zucchine fritte. […] immaginabile solo associandola a una padella di olio bollente […] perché tutto in lei dava di frittura”.
O in quella del dottor Astolfo Cavalieri, “un gran polemico, ma non lo era sempre stato”.
“Perché era diventato polemico? Mah, forse perché non aveva realizzato i suoi sogni, forse perché aveva scoperto quanto l’autodeterminazione non contasse nulla dove nel migliore dei casi è un Ente Supremo e Infinito a dirigere il tutto, sempre poi che non ci sia di mezzo anche il Caso”.
L’io narrante è estremamente presente in tutta l’opera, pronto a criticare il protagonista in ogni momento, ad interloquire e colloquiare con il lettore per spiegare, per renderlo partecipe delle sue intenzioni.
Allo stesso modo, le discussioni fra Giorgino Cola e un altro personaggio di cui non si dice il nome, ma che viene identificato come uno con “una voce grossa e grassa”, pongono riflessioni sulla situazione umana, spiegando il contesto, ma ancora di più la mentalità del siciliano autentico.
Il protagonista, Piero Meardo, è un antieroe, fa pensare al Tersite, scudiero di Ulisse, tanto bassa è la sua acutezza mentale, quanto la voglia di lavorare e di darsi da fare per svolgere un lavoro nuovo, che con lui e il suo fido aiutante che sonnecchia sempre, come ai tempi del liceo, non può prendere quota.
D’altronde il sonnecchiare, anche se in misura minore, è caratteristica anche di Piero Menardo.
La situazione descritta è sospesa, fluttante, contraddittoria, dilacerata fra realtà ed apparenza, grottesca, paradossale, pirandelliana proprio perché risponde alle inquietudini del nostro tempo.
Tra le tematiche trattate vi è il lavoro, “u travagghiu. Ciò perché esso sottende uno sforzo sia fisico che mentale, psichico. Come un travaglio interiore, solo che è anche esteriore, tale e quale al travaglio delle donne incinte. […] Inutile pensare di venirne fuori, quello del lavoro è un tunnel…come quello della droga, e una volta entratovi non se ne esce più”.
Si percepisce nel romanzo la visione che della Sicilia hanno i non siciliani. Questa terra, che va in prima pagina solo per i fatti di sangue: qui per l’omicidio del giornalista, in “Bagni achei” per la morte dell’alunno del Prof. Ariodante. Si tratta di una visione vera, pessimistica, proposta in chiave polemica, esasperata con i toni di chi ama la sua terra e vuole riscattarla ad ogni costo.
Altro tema che viene fuori dalla lettura di queste 99 pagine è legato al monto fittizio, irreale della televisione all’interno della quale tutto è diventato un talk show, al di là di ogni sentimento e di ogni verità.
Il mistero e l’inganno caratterizzano una verità che spesso è ostentata ma che scopre la sua falsa identità.
La ricerca della verità è fondamentale per capire il presente, ma la sua ambizione viene delusa, come accade in “Bagni achei”, più volte richiamato in questo scritto.
Non manca la ricostruzione, più o meno esplicita, dell’intreccio affari-politica-criminalità e la descrizione di chi sta al potere, anche nei gradini più bassi, perché, seppur considerata una “brava persona” tende a sistemare i figli “grazie alle sue conoscenze”.
E poi l’omosessualità, il rapporto contorto con le forze armate, neppure nominate ma a cui si fa riferimento come “Quelli delle strisce rosse sui pantaloni”, l’immigrazione clandestina con i migranti tunisini sbarcati da un barcone che stava per affondare.
Sullo sfondo abbiamo detto la Sicilia, ma più in particolare sta Scicli, la città di Gaetano, trasfigurata nel romanzo come una sorta di metonimia nella quale il torrente, ormai secco, è il palco sul quale si muovono i personaggi che escono fuori dalla sua penna.
Una domanda sorge spontanea: cosa simboleggiano i due colori presenti nel titolo? Sta al lettore scoprirlo partendo da alcune indicazioni dell’autore: “Quello sterminato mare di bionda sterpaglia che cerca l’azzurro mare per far felici gli occhi di qualunque mortale”.
Angela Allegria
21 aprile 2012
In AgoràVox