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Vent’anni: testimonianze e storie di chi ha vissuto quei giorni
Iniziare a leggere “Vent’anni” a cura di Daniela Gambino ed Ettore Zanca (Coppola Editore), fa scattare dentro emozioni forti, sentimenti contrastanti misti a ricordi che accomunano gli esseri umani nelle figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
E proprio con due loro citazioni che il volume si apre: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri” affermava Paolo Borsellino, “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana” dichiarava Giovanni Falcone.
Dovere e dignità umana che devono essere perseguiti a tutti i costi, anche a costo della morte, ma non per diventare eroi, bensì per essere uomini fino in fondo: questi i grandi insegnamenti di Falcone e Borsellino, valori fondanti di una esistenza orientata alla Giustizia e alla ricerca del Vero.
Il volume è una raccolta di scritti, di testimonianze e riflessioni che vanno da Maria Falcone e Rita Borsellino, a Ferdinando Imposimato e Carlo Palermo, da Antonio Mazzeo a Marilena Monti, Da Letizia Battaglia a Roberto Gueli, da Pina Maisano Grassi a Aldo Penna.
Maria Falcone parla del fratello Giovanni, torna a quei giorni vissuti come un black-out, racconta della scorta fatta personalmente da Paolo Borsellino ai funerali di Falcone, del dolore della mamma di Francesca Morvillo, il dolore di una madre inconsolabile, delle idee di Giovanni che dal momento della sua morte camminavano con Paolo e della voglia che tutto non finisca, ma che il loro messaggio resti. “Forse, se c’era qualcosa che doveva finire, era quel modo di pensare” conclude, il modo di pensare distorto di tutti coloro che si giravano dall’altro lato.
Rita Borsellino parla del Paolo bambino, dell’uomo, non del grande magistrato e per raccontarlo supera la sua timidezza radicata e va nelle scuole, nelle piazze, ovunque per seguire ciò che le disse sua madre: “Ecco quello che devi fare, devi raccontare Paolo, devi fare in modo che lo conoscano. Così gli vorranno bene e Paolo vivrà per sempre”.
L’ambizione di Letizia Battaglia è quella di liberare Palermo dalla mafia, sogno che si mischia alla rabbia di chi si accorda con Cosa nostra, di chi vi collabora anziché mettere i mafiosi “faccia al muro”.
Il mister Ignazio Arcoleo, il quale affida le sue impressioni a Roberto Gueli, si rivolge ai giovani, ai ragazzi senza il cui apporto non può esserci speranza di cambiamento.
Il giudice Ferdinando Imposimato, invece, è duro nella sua domanda “È stata fatta giustizia?” che suona retorica ancora di più nella risposta perché parla di uno Stato complice allora quanto oggi. Prima perché alcuni suoi esponenti hanno collaborato con Cosa nostra per uccidere Falcone e Borsellino, adesso perché tace la verità, “dando in pasto deliberatamente all’opinione pubblica persone innocenti o marginali per dimostrare che giustizia era stata fatta”. Si sopprime così la sete di giustizia che non appartiene solo ai familiari delle vittime, ai congiunti dei magistrati uccisi o degli agenti delle loro scorte, ma ad ogni cittadino che ha diritto di sapere, di conoscere la verità. La conseguenza è una grave sfiducia nello Stato che parla di servizi segreti deviati, quando invece si dovrebbe addossare la responsabilità di queste morti ai “servizi segreti e basta” e le cause alla conferma delle condanne dei boss in Cassazione e all’inasprimento del 41 bis che costò il posto di ministro a Scotti, e “a Giovanni Falcone costò la vita”.
Antonio Mazzeo descrive questi vent’anni come una crescita di squilibri e differenze, una dilapidazione di risorse pubbliche e naturali, un periodo nel quale l’acqua viene privatizzata insieme all’istruzione, l’energia è sprecata, il territorio consumato. Ci sono tanti orfani di giustizia e legalità, ma stavolta “con le schiene dritte, ancora indignati e con la tenue speranza che un altro Paese è ancora possibile”.
Fra queste e altre testimonianze presenti nel volume, l’inizio è affidato al racconto incalzante di Salvatore Coppola dal titolo “Tira stu palluni, Paolo!”
Coppola paragona la lotta alla mafia ad una grande partita di calcio nella quale l’arbitro è a favore dell’avversario, un arbitro “cuinnutu e puru immurutu, pari chi un ci curpa, è tuttu piatusu, si cunfissa ogni matina, trasi e nescu d’u Vaticanu, avi ‘amici’ unegghiè e quannu un ci’ appatta frisca u rigori, ti fa satai ntall’aria e poi t’ammazza nautra vota quannu va dicennu chi fu delittu d’onori”.
È un racconto metaforico nel quale sono citati tutti i personaggi, nel quale la vicenda si accende di luci ed ombre ancora oggi presenti. Gli accadimenti, i sentimenti, il futuro, la sfiducia, il dolore, la speranza, il cambiamento di rotta: sono tutti elementi che Salvatore Coppola inserisce magistralmente in un dialogo continuo con Paolo Borsellino , ma anche con Antonino Caponnetto e con ciò che disse all’indomani della strage di via D’Amelio. “È finito tutto…”. Una frase sconfortante che quasi fa venire rabbia per chi è morto e per chi resta. No, non è finito, la mentalità di tanti giovani e di tanti uomini è cambiata, “tutti appressu a Luigi (Ciotti ndr), un parrinu chi criri e prèrica Dio pi la paci ncelu pi li cridenti, ma chi prerica paci, giustizia e libirtà nterra pi tutti, senza addumannàriccì u nomu o lu culuri di lu so Diu”.
Angela Allegria
Dicembre 2012
In Il clandestino