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Violenza negli stadi. Intervista a Carlo Cerracchio, psicologo e psicoterapeuta
Alla luce degli eventi tragici che hanno sconvolto l’Italia calcistica ci si interroga sul motivo di tali accadimenti. Si cerca una ragione a cotanta violenza gratuita.
La Procura della Repubblica sta indagando sui fatti.
Il Procuratore Aggiunto, Dott. Renato Papa, il quale sta dirigendo le indagini sulla morte dell’Ispettore Capo Raciti, ha affermato: “Fermarsi è, a mio avviso un errore perchè potrebbe essere interpretato come un arrendersi ai teppisti. Il rischio è che passi il concetto che si dà ragione a pochi criminali che tengono così in ostaggio la stragrande maggioranza di tifosi che vanno allo stadio, che sono persone per bene, faziose ma non pericolose, di sicuro non delinquenti”.
Al fine di comprendere dal punto di vista psicologico le ragioni di tali gesti abbiamo rivolto al Dott. Carlo Cerracchio, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’AIPEP, qualche domanda sulla violenza negli stadi.
Quali sono le ragioni che portano alla violenza negli stadi?
La violenza è un tema antico e complesso, siamo animali senza difese se non la paura. Paura che si scioglie in aggressività, creando realtà di nemici prossimi ed assoluti, il cui annientamento è l’unica risposta plausibile all’angoscia della morte, fisica, psichica o sociale.
Siamo vicini alla violenza da sempre, con essa sperimentiamo ambivalenze di ribrezzo e contiguità, esecrazione e partecipazione. Dipende dalla realtà che ci creiamo e che gli altri, i potenti, che ci possono incutere paura e desiderio di ribellione, ammirazione e anelito d’emulazione, ci spingono a
realizzare. Quello che sento è che la violenza è un sintomo, e come tale non significa altro che quello che propone. Non ci spiega nulla se non entriamo in essa e cerchiamo di osservarne le qualità e le specificità. Ogni violenza è diversa non da come si manifesta ma da dove arriva.
Credo che la violenza alla quale siamo esposti nei nostri tempi, tempi morali e culturali, abbia la qualità della disperazione sociale e della psicosi da negazione di realtà.
Sicuramente la violenza negli stadi comporta un raccapricciante vantaggio: psicologi, sociologi e commentatori vari, per non parlare di giornalisti e politici, godono il proprio subconscio esibizionista elevarsi a luce guida della travagliata e miserabile società, quella immersa nella lontana, sconosciuta e disprezzabile realtà. Una realtà nella quale nessuno ormai vuole più vivere. Vi rimangono immersi solo i perdenti, gli sconfitti dell’etica del profitto e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, gente senza arte, titoli accademici, apparizioni in tv, che ogni domenica si raccoglie nella liturgia del calcio a manifestare il suo diritto alla sopravvivenza, dignità esistenziale confermata drammaticamente anche solo dalla presenza nella cronaca nera del telegiornale.
Da cosa sono accomunati tali soggetti?
Penso che la condizione umana di base sia quella psicotica, e solo l’etica sociale, un istinto che riguarda la sopravvivenza per cui l’altro diviene specchio della propria esistenza e salvaguardia dalle angoscie di annientamento, può riportare ad un contatto plausibile con il reale.
È necessario per ognuno di noi, quindi anche per i violenti da stadio, partecipare ad una realtà sociale. Purtroppo esistono diverse realtà, o meglio deliri di realtà, oggi sempre più lontane tra di loro, che confliggono per interessi e potere esistenziale, e non rimane altro che la lotta. Una guerra che ha già scritto i nomi dei vincitori, dove i perdenti vogliono solo banchettare al desco dei potenti, ammirarne la loro luce e osservarsi presenti nelle iconografie catodiche.
Quale meccanismo pscicologico si innesta in casi come quello di Catania fra vittime e carnefici?
Il meccanismo è l’odio. Il tentativo di annientamento dell’altro,colpevole e rappresentazione della personale sofferenza, diviene unico scopo per vincere il terrore della propria fine.
Il dolore per la morte di un essere umano ancora ci coinvolge e ci stimola all’esistenza.
Il dolore è un richiamo alla comune realtà, che esiste nonsostante i tentativi di annientamento di essa proposta da alcune filosofie dell’ultimo secolo.
Possiamo solo sperare che la partecipazione di tutti al dolore di una morte assurda ci spinga verso la comprensione di un destino comune e il ripristino di nuovi modelli etici, necessari per la sopravvivenza di tutti.
A Suo avviso il comportamento dei calciatori in campo o del commissario di gara, può influire su tali reazioni?
Quello che possono fare gli eroi della domenica è di partecipare maggiormente alle vicende dei loro ammiratori, evitando atteggiamenti tronfi e di disprezzo verso chi non dispone del loro potere. La distanza di forza economica e di dignità sociale è ormai indecente.
Questo crea un’arroganza del potere, che tutto può e nulla deve. Il giudice, l’arbitro della partita,
si trova inerte davanti al gioco principale, quello della vita, e non può nulla se non assecondare i diritti di prevalenza già aquisiti fuori del campo. L’unica regola diventa inesorabilmente quella del più forte, come una volta spenti i riflettori tutti gli astanti sperimentano nella loro terribile realtà.
Personalmente come pensa si possano “recuperare” tali soggetti pericolosi?
Siamo tutti nella stessa barca, o se vuole, nello stesso stadio. Io non voglio recuperare nessuno, non credo di averne i mezzi e le capacità, e soprattutto la volontà. Posso solo recuperare me stesso, sedendomi, metaforicamente per scarsa partecipazione agonistica, sulle gradinate in
compagnia degli arrabbiati, dei perdenti e di tutte le vittime di questo strano mondo e cercare di condividerne la sorte.
Angela Allegria
5 febbraio 2007